WE WONT SEX
Bel titolo equivoco, che fa pensare, da subito, ad una commedia alla Full Monty. E , in effetti , siamo in Inghilterra, in un mondo operaio in crisi. Ma non quella siderurgica verificatasi sotto il governo di Margaret Thatcher nel 1984, bensì nel 1968, con il laburista Wilson come premier e con Barbara Castle come ministro del lavoro.
Sicché l’iniziale frullar di gambe scoperte, di raggi di biciclette e di vestitini dagli acidulati color pastello non si riferisce ad un Grease post datato di 10 anni, ma all’apertura dei cancelli della fabbrica Ford di Dagenham, vicino a Londra. Cancelli che si spalancano arcigni non soltanto per il turno quotidiano di 187 donne fra migliaia di uomini, ma anche sul percorso verso una legge: l’Equal Pay Act del 1970, che sancì la parità retributiva fra i sessi. Ed ecco spiegato l’equivoco: uno striscione di protesta che si arrotola sulla parola finale “equality”, e che in origine era “We want sex equality”.
Dunque niente sesso (siamo inglesi); bensì la storia di una lotta e di una conquista sociale, condotta da una leader inventata di sana pianta (la brava attrice Sally Hawkins), piuttosto somigliante – corsi e ricorsi storici – alla musa dei film britannici di denuncia anni ’60, ossia Rita Tushingham. Ma i riferimenti filologici si fermano qui.
E il possibile abbaglio su Full Monty (bel film), o commedia analoga (si veda il più che discreto Calendar girls dello stesso regista) non è poi così errato. Perché la partita che si gioca fra operaie, vertici dell’azienda, sindacati e governo non è certo condotta alla Ken Loach, ma con una mano ibrida, e anche alquanto incerta, tra la denuncia, la commedia e il dramma. Secondo un canticchiato e un po’ stonato “sebben che siamo donne” fra il serio e il lieve, per non dire tra l’ingenuo e il banale, e semplificando molto, per ovvie ragioni sceniche, i percorsi di lotta, incorniciando ogni operaia partecipe in un suo santino privato e domestico. A significare, se mai ce ne fosse bisogno, la complessità della vita femminile, quasi sempre affannosa e lacerata su più fronti.
Sicché il filone di denuncia si perde in piattezze scontate che ricordano le estenuanti pubblicità dei detersivi che per anni hanno lavato più bianco del bianco, fino alla resa, per esaurimento di paragoni. E tutto è trattato retoricamente un po’ così, a semplificati pannocchioni di zucchero filato per apprendiste spettatrici che non vanno spaventate troppo. Perché è vero che gli uomini sono tiranni e i mariti reduci di guerra possono ricorrere all’estremo ricatto dell’auto impiccagione; è vero che nel momento in cui lo sciopero delle donne blocca le fabbriche, gli uomini si vedono costretti a casa e si rivoltano contro le colleghe, nonché mogli, che – causa picchettaggio – li impoveriscono e non gli stirano più le camicie. Ma è anche vero che poi versano lacrimucce e altri liquidi commozionali quando le sentono arringare le folle e i sindacati furbastri, fieri di avere impalmato degli esseri così positivamente diversi da loro e di sentirsene comunque amati.
E mentre il film si snoda tra melensaggini e impennate intelligenti, viene da riflettere su quanto poco il lavoro e la realtà di fabbrica siano in genere presentati in una luce di consapevolezza. E come il gioco delle parti in causa qui sfiori talvolta la più stereotipata delle fiction (il sindacato imborghesito dai privilegi, il governo men che facilone, la Ford cattiva da burletta), con l’aggravante di un intento storico-realistico del tutto fallito.
Ma volontariamente, o no, nel nome del pastiche di generi? Detto diversamente: l’argomento viene trattato così per sgrassarlo e farlo digerire a una popolazione di spettatori che va comunque edificata, o perché la sceneggiatura e la regia non hanno saputo fare di meglio?
In fondo, se il risultato fosse un musical o una commedia spiritosa, ce ne staremmo in pace. Ma la pellicola sembra prendersi sul serio. E allora, se la dobbiamo prendere sul serio anche noi, sorge un secondo interrogativo: un episodio storico interessante viene trattato ad usum delphini perché il concetto di lotta è andato ormai perduto? Ma se è andato perduto, è opportuno bocciare un film che pur qualcosa dice, anche se mistificando nella forma e nella sostanza, quando la discriminazione di genere continua a quasi cinquant’anni di distanza, e il mondo del lavoro non è mai stato tanto preoccupante?
Fingere che il panettone sia riuscito, anche se l’impasto è piuttosto insoddisfacente comunque lo si mescoli e rigiri, oppure sottolineare la modestia dell’operazione, che si autodenuncia proprio nei titoli di coda in cui compaiono le ormai anziane combattenti di quella lotta? E che, proprio geneticamente, non c’entrano nulla, ma veramente nulla, al netto del trascorrere del tempo, con le attuali interpreti del film. E’ quasi Natale: addiveniamo ad una indicazione di compromesso:si può comunque vedere.
WE WANT SEX di Nigel Cole, Gran Bretagna 2010, durata 113 minuti