Film

VENDICAMI

L’inizio ti inchioda : un posto non ancora precisato del mondo , una cucina dove bollono pentole animistiche e sornione , il vapore che rende traslucida una vetrata grigia di pioggia , una madre benevola che spia l’arrivo del marito e dei due figli piccoli , anatroccolati in impermeabilini gialli. Poi gli uomini scuri , gli spari , la donna che resiste e protegge , i bambini che hanno visto e vengono sacrificati. E Johnny Halliday che si avanza nero dall’Europa , espiando nel volto ormai irriconoscibile la rocktar ossigenata che lo vide giovane . E fa una promessa che è al tempo stesso di obbedienza all’imperativo categorico del titolo nonchè divagazione sull’imbastardimento dei tempi : perchè si sta parlando di etica e di valori . Quelli della Triade , che ha comunque un suo codice , un suo onore , le sue regole : rispetta il senso della famiglia , degli affetti , delle amicizie , così come devolve al cibo la trasmissione della sicurezza e dei codici parentali , a loro volta strettamente interrelati al denaro , alle armi , al doppio gioco , al tradimento , alla morte .

Comincia così un film avvincente che , più della narrazione , si preoccupa del linguaggio estetico e del conseguente impatto immaginifico ed emotivo . Siamo a Macao , nelle mani di un regista , sceneggiatore e produttore fra i più accreditati . E ci si sposta ad Hong Kong a miscelare generi , iniettando delle forme di western stilizzato in suggestioni tratte direttamente dai polar francesi di Jean- Pierre Melville , a loro volta innestati sui filoni dedicati alla mafia orientale , così come al wuxupian cinese ( genere asiatico assimilabile al nostro cappa e spada).

Ma ha un senso la vendetta , se la memoria viene meno ? Mentre la trama si dipana per segmenti , irrompe all’improvviso la domanda chiave del film . Che non contempla una risposta , ma sottolinea come l’essenziale non sia tanto costituito dalla consequenzialità delle azioni , quanto da uno stile ed una forma funzionali agli occhi e alle emozioni dello spettatore . Non importa se la pellicola finisce senza saper finire, perchè qualcuno magari si addormenta strada facendo e qualcun altro porta via la sedia prima della conclusione . Conta soprattutto usare lo schermo per l’esercizio di una maestria geometrica alla Greenaway , provetta nella scansione spaziale delle scene , secondo una narrativa a strisce orizzontali , impastate di tutte le più cupe sfumature dell’indaco ( non diversamente dal procedere dei fondali oro e prugna del film La promessa di John Hillcoat). Strisce che ogni tanto si impennano verticalmente lungo scale ansiogene , salite o scese ansimando , sia per colpire che per fuggire , con intersezioni di bianchi e neri inquietanti che ricordane le architetture di un Piranesi povero .

L’indifferenziata e visionaria traiettoria degli spari crivella la pioggia e il buio , tracciando ovunque luminosi filamenti da arazzo , mentre la macchina da presa riesce a filmare angolazioni che non sono meri virtuosismi tecnici , bensì efficaci e spesso sconcertanti punti di vista prospettici che sembrano ingoiare dal basso sia le armi che gli uomini . Fino ad una delle geniali ultime scene, lungo una specie di discarica del Bronx , tra i volumi squadrati del pattume a fungere da scudo medievale per entrambe le fazioni ormai meccanicisticamente contrapposte .

Il tutto senza la minima sfumatura di supponenza sperimentale o di una contaminazione di stili fine a se stessa . Si segue una cifra realistico – affabulatoria assolutamente originale , anche quando non completamente sorvegliata , che ha l’andamento dei sogni mattutini , quando anche gli incubi si fanno più ariosi . Viene sfruttato ogni segno , anche le rughe , i pori , i peli , le cicatrici ed ogni traccia corporale degli attori come interpunzioni grafiche di maschere che fanno da contraltare ai fuochi articiali delle armi , disegnati nel buio da un bambino saputo . Sicchè la recitazione è ingiudicabile , in quanto parte intrinseca della location teatrale . La stessa colonna sonora è a sua volta un tessuto trapunto di spari che hanno un loro impatto musicale , rappresentando di fatto l’inflazione ipertrofica del suono vero , proprio come l’impasto linguistico che a sua volta restituisce un’azione confusa di cui si è persa l’origine causale .

Dunque non un film complesso o prezioso ; anzi , potrebbe essere tacciato di una certa ribalda faciloneria . Ma un’opera affascinante , contraddittoria , imperfetta , che può dare del filo da torcere al cinefilo specializzato nel genere così come sorprendere l’ignaro che si abbandona con tutta la genuinità innocente dei sensi . E che può portare a discussioni passionali , nel bene come nel male , ma difficilmente lasciare indifferenti . Assolutamente da vedere , purchè non si cada nell’equivoco dei B movies tarantiniani : qui il cinema non cambia la storia , ma la storia si fa cinema , continuando a perpetuarsi per l’istinto di contrapposizione , anche quando si sono smarriti tutti i perchè.

VENDICAMI, di Johnnie To, Hong Kong Francia 2009, durata 108 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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