Film

VALLANZASCA. GLI ANGELI DEL MALE

Nel novembre del 2009 il nostro premier dichiarava: ”Se trovo chi ha fatto le nove serie de La piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura all’estero, lo strozzo”
Meno internazionale e più prettamente padana, ma in fondo per gli stessi motivi, la Lega Nord ha chiesto fin dalla presentazione di questo film all’ultima mostra di Venezia di boicottarne la visione, intensificando il messaggio alla sua uscita nelle sale cinematografiche.

“Non sono una vittima della società” proclama a un certo punto della pellicola il protagonista. E a questa affermazione così inusuale di questi tempi, l’intera sala si è come accomodata meglio nelle rispettive poltrone. Quasi fosse tornata a casa. Per assistere ad un pezzo di cronaca criminale ancora recente, quella di un bandito che rivendica le proprie colpe e il proprio lato oscuro, che corre sparata – e come potrebbe essere altrimenti – dall’inizio sino alla fine. Senza costruzioni furbastre a tavolino e senza ingozzamenti di flash back. Senza risparmiare allo spettatore l’iterazione di inseguimenti, pestaggi, tradimenti, scazzottate, sangue, omicidi, droga, soldi, scopate. Che ci si trovi a Milano e dintorni negli anni ’70, o in una nelle varie carceri d’Italia, dopo arresti, evasioni, e ancora arresti, fino ai giorni nostri. Rimaniamo ossessivamente accosti alla banda, soprattutto al suo Capo, quasi a carpirgli il segreto del suo agire. Ma senza pensosità, introspezioni, tentativi psicanalitici.

Il merito è quello di aver perimetrato l’indole del personaggio mediante un’operazione di esternazione, accumulando solo fatti e dichiarazioni storiche. Ne risulta, grazie anche alla notevole immedesimazione di Kim Rossi Stuart, un’individualità non tanto amorale o immorale (che il giudizio in questo senso è scontato) ma con un credo personale, il cui obiettivo è distinguersi. Che asseconda un’esplicitata vocazione alla rapina, ma che ha a suo modo una legge: quella di non tradire e di non cercare alibi. Un D’Artagnan guascone, capace di autocondannarsi per il gusto della battuta non omologata. Un ribelle non romantico, un bandito e poi un assassino di nebbia e di danè, che sprezza il dialetto ma è nel contempo lumbard e pateticamente bauscia. Un arrivista dell’ego e, a suo modo, anche uno scalatore sociale entrato dalla porta sbagliata. Che alla fine, nella sua totale distorsione, sposa la donna che lo ha aiutato per tutta la vita e, a sessant’anni, riconosce che la sua avventura nel male è chiusa. E si ritira nei suoi quattro ergastoli, escludendo altre evasioni.

Non crediamo sia importante, ai fini dello spettacolo, chiedersi o meno quanto il personaggio fittizio corrisponda filologicamente a quello reale. La sua centralità è comunque il pregio e anche il (parziale) limite del film. Che, per stargli addosso, rinuncia a cesellare le figure al contorno, e quasi annulla lo sfondo storico e politico di quegli anni, così ricco di spunti e di suggestioni. E in questo senso la memoria va a Romanzo criminale, con cui il raffronto è quasi d’obbligo. Che era superiore per coralità di presenze, varietà di situazioni, inquadramento storico e senso del male ma che fruiva però sia del robusto romanzo di De Cataldo che della sua sceneggiatura.

Ora, è probabile, se non matematicamente certo, che i giudizi siano in funzione del grado di sorpresa che si prova alla fine di una visione. Qui ci si aspettava di meno e si è avuto di più, forse soprattutto a causa della disgraziata chiosa al titolo, ossia lo stucchevole Gli angeli del male. Resta fermo, in filigrana, un confronto quasi inconscio con il malaffare d’oggi, che, al netto degli assassinii, quasi quasi fa apprezzare questo Vallanzasca o almeno la sua – se pur mal declinata – dignità personale. Difficile dire se la Lega (partito poco cinematografico per definizione, avendo sperperato un miliardo e mezzo di denaro pubblico per produrre quel Barbarossa che praticamente nessuno ha visto) abbia avvertito questo improprio eppur cogente raffronto con i tempi nostri, o si sia limitata alla difesa del comune territorio materno dei per bene e del per male.

Di una cosa però siamo certi: che i cittadini non abbiano bisogno di una tutela delle coscienze, bensì di una corretta amministrazione e di adeguati pubblici servizi (da cui escluderemmo volentieri l’indice dei libri di recente memoria). E, per tornare a noi, questo film è una sorpresa più che discreta, anche se probabilmente meglio adattabile al piccolo schermo: dove la sequenza delle varie rapine, diversa nella forma, ma simile nella sostanza, può anche essere interrotta da qualche veniale occupazione extra. Senza perdere quel ritmo scapicollato che è la cifra caratterizzante, ben assecondata da una regia e una fotografia impetuose, sfrontate, poco calcolatrici.

VALLANZASCA.GLI ANGELI DEL MALE di Michele Placido, italia 2011, durata 125 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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