UNDICESIMO BOUQUET
THE GAME di Aessandro Baricco, Einaudi 2018,325 pagine
Chi segue Alessandro Baricco sin dagli esordi non può esimersi dall’apprezzarne il coraggioso tragitto di sperimentatore a tutto campo, sempre in grado di farti visitare di nuovo un testo, un’immagine o una musica che pensavi di conoscere a memoria e di cui invece avevi negletto angoli e trascurato luci. Senza dimenticare l’operatività della Scuola Holden, che ha ormai generato una solida consorteria alla McKinsey.
In The Game l’autore ridispone con passione testarda il suo istinto, il suo sapere umanistico e la sua esperienza intorno ad un fulcro preciso: esumare, inventariare e interpretare le tracce degli individui nel loro percorrere la svolta digitale, fino a rendere visibile quel territorio senza confini che rappresenta una diversa civilizzazione, con le relative coerenze e contraddizioni. Si mettono in ordine date e numeri, si tracciano mappe che mantengono meno di quanto promettono, si fiuta, si studia e si ragiona partendo da come muta la consistenza stessa dell’esperienza fisica e mentale tra il cimentarsi nell’arcaico calciobalilla piuttosto che con il videogioco Space Invaders (1978); perché < ..siamo divinità festive, che creano nel settimo giorno, quello in cui il vero Dio si riposa >.
Perpetrate la ribellione e la fuga dai valori e dalle élites novecentesche saltandone le mediazioni, modificate non tanto le mosse quanto cambiata la scacchiera, reinventati gli strumenti relativi, l’umanità ha perseguito un modo radicalmente diverso di pensare ed agire, passando dall’antico trinomio uomo-spada-cavallo al sovversivo uomo-tastiera-schermo. Fino alla postura zero dello smartphone e alle app in guisa di protesi. Per muoversi, con la sua umanità aumentata, in una replica digitale e ribaltata del mondo conosciuto, trasportando tutti i mondi precedenti in un unico ultramondo parallelo, complesso in profondità ma semplice in superficie. La velocità magari a scapito della qualità, la verità diminuita e ridisegnata in modo aerodinamico per arrivare prima, ma sempre con l’inebriante sensazione della libertà senza limiti né regole. Da cui un individualismo-egoismo di massa che si muove leggero in zone dove tutto è più facile e divertente, secondo dinamiche che sono particolarmente affini al funzionamento del cervello, quando vaga, e quindi linka, senza costrizioni. Che poi la rivoluzione non realizzi il primigenio sogno democratico, che il tutto sia diventato l’unità di misura del web, che guadagni non più chi crea ma chi distribuisce, che i monopoli imperversino e non paghino le tasse investendo sull’intelligenza artificiale, ha sì generato timori e controspinte, esercitate tuttavia utilizzando quello stesso web da cui nessuno ha la minima intenzione di uscire..
La concisione della sintesi non sembri costretta solo dallo spazio. La singolarità di questo libro è anche nella sua organizzazione e nel suo stile. Si è parlato spesso di baricchese in termini irridenti ed è vero che il nostro si muove talvolta come un catechista sornione. Però è uno dei pochi che non solo sa usare lo storytelling, ma che amalgama da sempre l’analogico e il digitale: dal primo mutua l’antico ronzio di un approccio maieutico, dal secondo la fulmineità aforismatica, immediatamente riconoscibile ed invitante come un’icona dello smartphone ( < Ciò che può essere riassunto da un duello avrà vita facile:Achille contro Ettore non perde da millenni >).
The Game è quindi un libro utile, adatto ai giovani natii digitali per renderli coscienti del liquido amniotico da cui provengono; consigliabile a coloro che hanno anagraficamente un piede qua e l’altro nell’analogico; terapeutico per gli anziani, relegati a postare qualche tramonto. Dei tecnici invece non immaginiamo le repliche, silenti sottotraccia fin dall’alba della rivoluzione.
NEL CUORE DELLA NOTTE.LA FAMIGLIA AUBREY volume II di Rebecca West, Fazi 2019,406 pagine
Fin dall’Odissea la letteratura si è nutrita di famiglie, sia perché è un’esperienza cui nessuno sfugge per eccesso o per difetto, sia perché ogni famiglia è già una trama. Da cui non soltanto libri unici, ma saghe che si misurano con i decenni, soprattutto a partire dalla nascita del romanzo moderno, tra il 1600 e il 1700. Nè farebbe eccezione la trilogia sugli Aubrey di Rebecca West, se solo l’autrice non rappresentasse un’anomalia, tale da consentirne la lettura a prescindere dall’ordine cronologico delle pubblicazioni e quindi delle vicende.
Per quanto appassionanti, non sono loro a occupare la scena, bensì il modo di circoscriverle e di narrarle: con la stessa seducente lentezza di chi suona una musica empatica, che la parola riesce a rendere visibile anche alla mente. Senza nessun autocompiacimento espressivo , ma con uno scarto ottico e una misura enigmatica capaci di trasmettere la coscienza dell’esistere attraverso un pranzo, una gita, un pub, un giardino.
Eppure i grandi temi sono tanti: il sentimento di inadeguatezza e di sottomissione dell’infanzia; la consapevolezza ribelle di dover crescere per restare solo e sempre delle femmine; l’isolamento sociale indotto dal connubio tra la povertà dei mezzi e la ricchezza della cultura; le passioni sbagliate che riescono a generare una sorta di felicità infelice superiore alla felicità stessa; il rigore doveristico e la semplice piacevolezza del piacere; l’intelligenza selettiva e la misericordia indiscriminata.
Intanto il tempo scorre per ellissi, i figli crescono, le madri vanno oltre l’imbiancamento, i padri spariscono, le fioriture e le nebbie si avvicendano, i vecchi amici diventano vecchi, ognuno con il proprio galateo interiore ed esteriore. A ridosso della prima guerra mondiale, i giorni passano nell’attesa di un futuro lusinghiero o minaccioso che, per scaramanzia, non viene scrutato nei cerchi d’acqua di un secchio arrugginito, secondo le credenze di un’anziana domestica. Essendo presente anche un velo tutto anglosassone di insondabilità extrasensoriale, con la sommessa allusione ad un altrove mai identificabile, insistente ai margini come un presagio. Non soltanto per la sonorità visiva del periodare, ma in ragione dell’organizzazione geometrica degli spazi e degli ambienti, restituiti al lettore secondo prospettive frontali o sghembe che lasciano sempre aperti dei varchi misteriosi.
Solo nel terzo libro sapremo cosa ne sarà delle due sorelle complici, concertiste come l’ex celebre madre; quanto succederà all’altra sorella inopportuna; come incideranno le morti già avvenute: una immaginata per deduzione, l’altra direttamente lacerante, la terza annunciata da lontano. Con cui sparisce, come un lungo addio inconsapevole, l’arioso eclettismo che impronta tutto questo secondo libro, in forma di un’ esuberante, gioiosa, spesso anche umoristica rincorsa verso la vita, se solo un universo irragionevole non avesse stabilito che bisogna morire.
E non sembri inattuale leggere libri che appartengono ad un altro secolo quando neanche Anthony Trollope è stato ancora completamente tradotto. Per merito dell’editore Fazi oggi si riscoprono talenti come Elizabeth Jane Howard ( La saga dei Cazalet, primo e secondo volume, poi la scrittrice si stanca); Elizabeth von Arnim, di cui qui ricordiamo solo La fattoria dei gelsomini, per alcune analogie; infine Rebecca West, che chiunque, anche in giovanissima età, può amare al posto di parecchi scrittori contemporanei. Con o senza auricolari, l’intrattenimento è assicurato e il gusto si forma, trovando anche risposte migliori alle domande di sempre.
FIORI FUTURISTI di Giacomo Balla 1916-1930