UNA VITA COME LE ALTRE
Rarissimi sono gli scrittori che, come Alan Bennett, sanno trarre dall’arte del levare il massimo dell’effetto artistico, senza per questo perseguire un minimalismo asfittico. Basti pensare a quel gioiello di malizia comica ed inventiva che è La sovrana lettrice (2007) : tra il romanzo breve e il racconto, l’apologo e la satira di costume, il classicismo perfetto sposato ai ritmi della modernità. Sì che gli aggettivi che salgono ricorrenti alla mente sono delizioso, effervescente, ironico, lapidario. Tutti legittimi, eppure in qualche modo tutti superficiali, che Bennett ha la capacità di andare alle viscere dell’esistere con l’aria di fare un’ariosa scampagnata sovrappensiero. Osservando, inventando, girando in tondo, per poi colpire con il massimo possibile della semplicità significante . E non soltanto nei suoi libri, ma anche nelle sue opere teatrali, una delle quali ha dato vita al magnifico, struggente film The history boys(2007), in cui sin dai primi fotogrammi si comprende di essere veramente in un’altra storia, rispetto alla produzione corrente.
Forse è la parola originalità quella che più gli si addice, disponendo di un punto di vista singolare e inconfondibile, sempre in bilico tra la satira e la serietà, capace di mischiare la crudeltà con la partecipazione, risolvendo l’amarezza in sorriso , e viceversa. Con un orecchio finissimo alla colonna sonora della contemporaneità, compresi i disturbi di sottofondo.
Stupisce solo in apparenza, dunque, che in questo libro abbia per la prima volta parlato autobiograficamente di sè, raccontando la storia della propria famiglia, nonchè affrontando temi dolorosi come le aspirazioni mancate, la malattia, la morte, il suicidio, lo smarrimento della ragione; in una storia che fa i conti con gli anni cinquanta e sessanta, e con la medietà pudica e restia della piccola borghesia non soltanto inglese, contrapposta all’arrogante imperativo odierno dell’esserci e dell’apparire a qualsiasi costo . Il tutto colto in quel momento di mezza sera quando non si è ancora vecchi, ma si è cessato definitivamente di essere giovani, essendo sopravvenuta nel frattempo la discriminante fondamentale di ogni vita, ossia il momento in cui si smette di essere figli. E ogni cosa assume un significato diverso rispetto a quando la si viveva, affaccendati comunque a costruire inconsapevolmente nient’altro che un passato.
Passato personale che si affaccia dalla cittadina di Leeds, quando lo scrittore raggiunge quell’età in cui è inevitabile provare interesse per le proprie origini. Ed ecco i due genitori:Lily e Walt da fidanzati, ma in seguito trasformati dalla prole, e per sempre, in Papà e Mamma. Lei timida e senza pretese, con un’incrollabile fede nei suoi piccoli oggetti d’antiquariato e nella precisa, affollata gerarchia degli stracci per le pulizie. Con il sogno di dare almeno una volta nella propria vita un cocktail party ; non per distinguersi, ma in odio al concetto di ordinarietà. Lui macellaio, a sua volta riservato e gregario, che solo quando riuscirà tardivamente a prendere la patente sentirà di essere entrato a far parte della razza umana ; e che non smetterà mai di occuparsi della malattia di lei, ben sapendo che il destino tanto temuto li inghiottirà entrambi. “Proprio quando il miracolo del collettivo equilibrio familiare viene dato per scontato, mentre è sempre così precario”.
Quindi le due formidabili sorelle materne, Kathleen e Myra, evolute e mondane imitatrici di Bette Davis, nonchè depositarie, in quanto zie, del diritto di essere le vestali della trasgressione presso i nipoti. Intorno un presepio di figure tanto marginali quanto significanti, a tenere accuratamente incartato un segreto. Le deiezioni ritrovate delle vite ormai perse: l’investimento sociale in stecchini e bottiglie di un ricevimento mai avvenuto; i vestiti buoni e quelli da lavoro; i bauli degli avventurosi viaggi di una delle zie, pieni di piccoli inutili ricordi esotici ; e, soprattutto, il tragico percorso di depressione e di perdita dell’identità, quando le esistenze raggiungono il minimo del loro valore sociale, appartenendo a ex persone ormai dementi, collettivamente insignificanti, economicamente inutili , anzi parassitarie. Con lo snodarsi delle varie esperienze ospedaliere, colte in tutto l’orrore di un percorso apparentabile alla gelida minuziosità delle stampe hogarthiane. Ma sommessamente, spesso con umorismo, senza le civetterie egotistiche e le reinvezioni eroicheggianti di tante biografie fra il mitico e il ritoccato.
Rivisitando, scoprendo o riscoprendo con cronachistica, sobria emozione , secondo un’epifania casalinga affettuosa e partecipe quanto inesorabilmente cruda. E di forte spessore individuale e sociologico, senza risparmiare nemmeno se stesso, in una sorta di sincerità prossima alla catarsi liberatoria. Appartenendo l’autore ad una razza “che si sveglia , anche sessualmente, solo ben dopo i quarant’anni”. Avendo probabilmente tenuto a lungo nascosta la propria natura affettiva, e visitando alfine le tombe mano nella mano di un compagno di una trentina d’anni più giovane. A mormorare una breve preghiera, una sorta di “ecco” a pacificata conclusione di una forma di transazione finalmente avvenuta. Fino al prossimo giro di ruota.
In un periodo fitto di autobiografismi , sia di incapaci di scrivere qualcos’altro sia di ventenni forse con la consapevolezza di una fugace quanto fragile fama, un libro vero. Di uno scrittore vero. Che si legge senza interruzioni, guardando anche le fotografie, mentre si ripensa a se stessi. E che , intrattenendo come un romanzo di sorvegliatissima costruzione letteraria, prende anche il posto degli abbracci che non si possono più stringere. Perchè, per parafrasare l’inizio di Anna Karenina, “ogni famiglia ha un segreto: quello di essere diversa dalle altre”.
UNA VITA COME LE ALTRE di Alan Bennett, Adelphi 2010, 172 pagine, 17 euro.
CONSIGLIATI, da leggere o da rileggere:
La sovrana lettrice, Nudi e crudi, Signore e signori, La pazzia di Re Giorgio
Da vedere o da rivedere il film: The history boys