Film

UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA

Che la fiaba fosse un rito di iniziazione finalizzato a illustrare la vita ricorrendo alle rappresentazioni della morte lo sosteneva già Karl Popper ne Le radici storiche dei racconti di fiabe (1946). Che il regista Jacques Audiard se ne avvalga per ottenere lo stesso scopo lo diciamo noi. Nell’osannatissimo Il profeta (2009) la nascita e l’ascesa criminale di un boss all’interno di una prigione si poneva come un racconto di crudo realismo, ricorrendo tuttavia a tutte le caratteristiche della fiaba: la vaghezza, la verosimiglianza solo di superficie, l’insistenza sulle ripetizioni, il reiterato eroismo con finale comunque glorioso e, in filigrana, il tono esistenzial-didattico. Niente di diverso in questo altrettanto dilagante film, che si pone nello stesso filone a partire dal titolo poetico-gnomico – che, a voler essere cinici, farebbe la delizia di un ortopedico assatanato.

In una città di mare non meglio precisata approda un giovane Alì di etnia incerta, e dal passato più vago che misterioso. Porta sulle spalle un figliolino biondo che scarica alla sorella e si dà da fare per trovare un lavoro in quegli interstizi tra il legale e l’illegale che consentono a coloro senza arte nè parte di campare comunque. In qualità di buttafuori da discoteca conosce una giovane istruttrice di orche che opera in un acquario, per la gioia di un pubblico circense. Ma i docili e coreografici mammiferi marini un giorno sbagliano o si ribellano alla cattività e lei perde le gambe e la voglia di vivere; lui la tratta con una naturalezza animale e si rende “opé” (ossia di aiuto operativo in tutti i sensi, dai bagni di mare al sesso ) fino a farsi accompagnare negli incontri clandestini, più di pestaggio che di boxe, a cui partecipa per raggranellare ulteriori quattrini. La trama prosegue poi con un crescendo di disgrazie tra plurime simmetrie di ossa sfrante, mentre entrambi arriveranno per vie diverse ad una empatica, reciproca consapevolezza .

Il tutto in mezzo all’atonia di giornate qualsiasi nettamente contrapposte alla densità melodrammatica degli eventi come, appunto, negli iperrealismi che confinano col fiabesco. E senza risparmiare assolutamente nulla agli spettatori, comprese tutte le ovvie prevedibilità del fantastico-paradigmatico. Ma sempre sotto le mentite spoglie oggettive del sangue, del martirio fisico, della sofferenza morale, dei dettagli vili, nonchè di un coraggio meccanicistico che rasenta l’insensibilità e che alla fine – dopo l’ennesima prova- bruscamente si scioglierà come neve al sole, per giungere a indicare il senso pieno della vita.

Che le fiabe fossero anche perfide e sadicamente destinate ai bambini era altresì noto: basta sfogliare quelle dei fratelli Grimm. Che piacciano in particolare agli adulti è più misterioso, se non fosse che una certa matrice religiosa prevede il dolore prima di arrivare alla coscienza della pienezza esistenziale che ci viene regalata dall’alto: basta saper imparare dall’angoscia per riuscire poi ad apprezzarla nella giusta ottica.

Tuttavia queste notazioni non sarebbero sufficienti a giustificare il gradimento dei film del premiatissimo Audiard, che in realtà è un animale registico di razza sotto le infelici sembianze di un narratore di feuilleton edificanti. Coadiuvato per eccesso dai suoi sceneggiatori, rimane un uomo di cinema con una suo preciso timbro anche se, da impressionista /simbolista, si contrabbanda da realista , forse per vendere di più.

In tale senso, il fascino vero del film consiste nella costruzione delle immagini e nell’utilizzo della macchina da presa, che inquadra frontalmente l’azione, ma al tempo stesso fa sempre scorrere la storia da sinistra a destra, come nelle strisce disegnate. Talora sfocando i primi piani a favore della precisione degli sfondi, talora lasciando nel vago questi ultimi, per concentrarsi sull’ingrandimento dei dettagli alla ribalta. Sempre e comunque all’interno di un modo di comporre la realtà come attraverso dei filtri traforati, che a volte sono rappresentati dagli alberi, altre volte dai particolari architettonici, e molto più spesso dalle rifrazioni delle luci e delle ombre, come in un gioco di colori e di specchi. Sicchè la luminosità di una giornata al mare esprime di colpo la rivelazione stordente della natura, così come dagli interni degli ambienti si possono desumere più indizi e spiegazioni che non da mille giravolte romanzesche.

Perchè l’unica vera cifra realistica che Audiard sa magistralmente trasmettere è la sensazione suggestiva della violenza di una rissa, dell’aria mossa di una corsa in automobile, delle parole pensate e non pronunciate. Non poco anche se non abbastanza, insieme alla scelta felice degli attori, in particolari quelli maschili (Matthias Schoenaerts per questo film e Tahar Rahim per Il profeta).

UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA ,di Jacques Audiard, Belgio Francia 2012, durata 120 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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