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UN ALTRO PONTE

Nel 1959 Pierre Mollaret , un neurologo francese nato nel 1898 , pubblica un articolo ormai storico insieme all’epidemiologo Maurice Goulon ,  più giovane di lui di vent’anni . Lo studio descrive l’accertamento delle caratteristiche del coma irreversibile presso una serie di pazienti privi di attività cerebrale e incapaci di respirare autonomamente . Circa dieci anni dopo un’équipe dell’Harvard Medical School licenzia definitivamente gli stessi parametri   per l’accertamento e la definizione della morte nervosa – e quindi legale – oggi alla base di tutte le legislazioni nazionali : presupposto tassativo per qualsiasi attività collegata al trapianto d’organi , non essendo sufficienti alla bisogna la cessazione cardiocircolatoria ( morte clinica) e quella respiratoria ( morte reale ) .

Costruire un racconto intorno ad un tema altamente scientifico e nel contempo impudicamente radicato in tutte le implicazioni organiche ed emotive della morte come della vita è un’impresa per pochi scrittori  , capaci di evitare le trappole della divulgazione corriva e quelle del vibrato personale che attualmente trascorre nei tanti –  troppi – instant book di testimonianza autoterapeutica sulla malattia .  Maylis de Kerangal aveva già dimostrato con La nascita di un ponte  di essere una di quei sorprendenti  creatori in grado di fondere la specializzazione tecnica con l’epopea umana secondo i risvolti linguistici e inventivi dell’avventura letteraria . Nel  primo libro tutta la scienza ingegneristica di una grande opera edile si fondeva con l’allocazione esotica dell’immaginario  distretto  di Coca , mentre i protagonisti confluivano da ogni parte del mondo per vivere e  lasciare dietro di sè una lotta di pietre e di fango , interagendo e perdendosi come tangenti al cerchio . Con  quest’altro  titolo  governa di nuovo magistralmente una materia ancora più ostica avvolgendo l’asetticità clinica dei protocolli e degli interventi intorno ad una spirale  impressionistica di fatti quotidiani e di reazioni  individuali , fino a trasformare la dolorosa precisione della cronaca in un inno omerico di ombre scure aureolate di una luce mitologica.

Il romanzo prende l’avvio con una grande onda , non diversamente da quel bel film sul palpito breve della giovinezza che è stato Un mercoledì da leoni di John Milius ( 1978 ) .Tre giovani surfisti si tendono nell’acqua fino al limite delle  forze per poi tornare nei loro corpi trionfanti alle case che non raggiungeranno , la corsa interrotta da uno schianto  sull’autostrada . Simon Limbres muore e la sua mancata traiettoria vitale prosegue lungo una sfida di viaggi differenti , dall’espianto alla donazione del cuore , dei polmoni , del fegato e dei reni , ma non degli occhi , residuo  simulacro di un’identità ormai perduta  . Intorno al donatore ignaro del dono  ( una sorta di Patroclo pianto , svuotato e poi sacralmente restituito ) , alcuni medici e infermieri con i brandelli di un privato sempre interrotto dall’assillo di “seppellire i  morti e riparare  i viventi” , secondo una citazione dal Platonov di Cechov ; una cardiopatica in attesa ; i pochi parenti ed amici dell’uno e dell’altra .  E poi   i paesaggi urbani , i labirinti delle corsie , la ieraticità alchemica delle camere operatorie e il capovolgimento dell’antica mappa credenziale che installava il cuore al centro della vita , mentre  è il cervello a signoreggiarne  sia il senso che la fine .

Affacciata sull’indefinibile ed anche equivoca cesura posta tra ogni insondabile termine   e ogni indicibile inizio , Maylis de Kerangal non si tiene ai bordi  , ma si butta nell’abisso aggrappata alle vertiginose funi della sua scrittura , sempre in bilico tra la caduta e il volo , convertendo in realtà i grandi interrogativi filosofici , il cui problematico riscontro è affidato alla donna adulta che deve sostituire il suo   vecchio cuore usurato .* Siamo quindi lontani sia dal trattato di divulgazione – sensibilizzazione così come dai cascami dell’esperienza autobiografica , per abitare senza mediazioni nell’acribia della documentazione , supporto formidabile alla serietà della fantasia e al tempo stesso forma empatica  di rispetto verso un tema sul filo dell’equivoco tra giusto e ingiusto , naturale e  innaturale .

Perchè l’argomento ha un suo lato morboso , che può funzionare nella direzione dell’orripilata attrazione voyeuristica così come nella pregiudiziale astensione di coloro che non affrontano certi aspetti della vita e della morte  perchè “gli fanno senso” , ritenendo forse  che l’ignoranza dei corpi e la rimozione  del dolore altrui possa contribuire alla sospensione di quell’inesorabile ciclo fogliare che fa di noi  esseri insostituibili e nel contempo irrilevanti pedine . Invece , ancora una volta , è la trasposizione artistica a rendere coinvolgente – anzi , quasi imperativa – un’avventura clinica eppure  densa di stordimenti ,  strutturata senza esitazioni intorno a tagli di tempo , di luogo  e di pensieri interiori che non risentono di alcuna artificiosità . Anche la retorica che talvolta si presenta come una sonda e un coronamento del concetto di limite ha una sua funzionalità , insieme ai manierismi di frasi lunghe e concitate come il fiato che viene a mancare  sia ai morenti che  a coloro che sopravvivono .

Veicolo di sentimenti prepotentemente smarriti  e tentativamente arginati dal viatico delle regole certe , nonchè dalla pietas umana della loro interpretazione , Riparare i viventi è costruito con sapienza e con amore da una mente maschile che si avvale di una sensibilità femminile : colpisce corticalmente grazie ad un dono autoriale  sempre riconoscibile , in grado di costruire , senza che il lettore se ne accorga , un altro nuovo ponte tra chi va e chi resta , mentre tutti  i piani e le sezioni del disegno sono sia illustrazione concreta che rimando simbolico : il cuore e l’individualità , il cuore e il sentimento , il cuore e i suoi percorsi di vita e di morte ,  il cuore che diventa organo , l’organo che diventa ricambio  , il ricambio che ridiventa cuore , con la sua corona di domande inesitate intorno a ciò che finisce, rimane,  continua.

7

Il libro

RIPARARE I VIVENTI di  Maylis de Kerangal , Feltrinelli 2015 ,  218 pagine , 16 euro

L’autore

Maylis de Kerangal – Le Havre , 1967 – figlia di un capitano di lungo corso , dopo il liceo classico segue all’Università di Parigi vari corsi di storia , filosofia ed etnologia ; dopo due soggiorni negli Usa , riprende i suoi studi alla EHESS ; intanto lavora per l’editore Gallimard . Nel 2008 Corniche Kennedy , il suo quinto romanzo , è segnalato per i premi Médicis e Femina ma la sua affermazione internazionale avviene nel 2010 con La nascita di un ponte , Prix Médicis e Prix Franz  Hessel

La citazione

* “Lei non ha paura dell’intervento . Non è questo . Quel che la tormenta , è l’idea di quel cuore nuovo , che qualcuno sia morto oggi perchè tutto questo succeda , che possa invaderla e trasformarla , convertirla…Gira a vuoto per la stanza . Se è un dono , è comunque di un genere speciale , pensa . In quell’operazione non c’è donatore , nessuno ha avuto l’intenzione di fare un dono , e allo stesso modo non c’è beneficiario , poichè lei non è nella condizione di rifiutare l’organo , deve accettarlo se vuole sopravvivere , allora , che cos’è”.

Le connessioni arbitrarie ( e virtuose )

Per la tematica del “ricambio” : Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro

Per la tematica della pietas : La morte di Ivan Il’ich di Lev Tolstoj

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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