THE WARD
Che cosa c’è di peggio della paura? Probabilmente la paura di aver paura. Con questo stato d’animo, l’eroico recensore – concettualmente favorevole al genere horror, ma contrarissimo a praticarlo dal vivo per biechi motivi di codardia coronarica – si è immolato a beneficio dei suoi numerosissimi fan, assistendo al ritorno sugli schermi del maestro John Carpenter, ormai silente da una decina d’anni. Previo acquisto di una chilata di farmaci vari, fra ansiolitici da trangugiare durante la visione e sonniferi per le visioni ex post. Per intenderci, quelle che magari assalgono quando si è chini sul lavandino, e di colpo viene in mente che l’indifesa tenera nuca è offerta a ogni tipo di possibile aggressione alle spalle.
Dunque The ward, che comincia ovviamente in una notte buia e tempestosa, satura di quei colori verde-bluastri tipici delle ecchimosi che non per niente si chiamano anche lividi, mentre la musica si scatena a rincarare il rumore dei tuoni. Il giorno dopo tutto è sereno e un sottotitolo diligente avverte che siamo forse in Oregon, nel 1966. E’ fuggita una ragazza pericolosa per sé e per gli altri, che infatti vediamo zampettare discinta per la boscaglia. Fino al suo arresto di fronte ad una casa colonica, cui dà scrupolosamente fuoco. Immediatamente impacchettata da una polizia diligentissima, la ritroviamo nel reparto speciale di una clinica psichiatrica, opportunamente addobbata da clinica psichiatrica, con muri smaltati di fresco per favorirne la fotogenia, secondo una gamma di tinte tipicamente ospedaliere anche nella realtà, ossia fatte apposta per essere ributtanti di giorno e decisamente inquietanti di notte. Dopo i debiti trattamenti, la sua cella viene misteriosamente visitata, cosa di cui la bella si lamenta presso il personale di servizio, come se fosse in un hotel a cinque stelle. Tra l’incredulità generale. Naturalmente non è sola: condividono il suo destino di presumibile pazzia altre quattro altrettanto avvenenti coetanee, sorvegliate dall’arcigna infermiera di turno, coadiuvata dai soliti energumeni capeggiati da un medico troppo mellifluo per essere rassicurante.
Siamo quindi dalle parti della classicità: il labirinto isolante di un ambiente infestato e architettonicamente tortuoso, il disturbo mentale, il misterioso fantasma che appare e scompare materializzandosi dal nulla, con passo ticchettante tra corridoi deserti appena algidamente rischiarati da luci al neon. E poi tutta la gamma d’offerta a basso costo tipica dei luoghi di pena: le pastiglie trangugiate per finta, i tagliacarte rubati e nascosti, i tentativi di evasione sempre frustrati, gli elettroshock, le camicie di forza, le catene, i lettini di contenzioso e di contenzione, le schermaglie amichevoli o infide fra ragazze amiche-nemiche, le docce da nude… Intanto però, disturbate o meno, le pazienti scompaiono una ad una, ché il mostro, anzi la mostra, femmina, purulenta, artigliata – e con un pessimo maquillage – sembra davvero mal intenzionata…
Quindi, disturbato o meno, anche l’eroico recensore non ha nemmeno tentato di tenere le dita a persiana davanti agli occhi – ponendosi nel mentre alcune domande di senso – perché rapidamente avvertito che si costeggia il risibile. O, meglio, un risibile in versione povera del ben più magniloquente Shutter Island di Scorsese. Grazie alla cui frequentazione alla fine i conti torneranno anche qui. Benché l’enigma non sia né credibile né interessante, equivalendo di fatto alla colpevolezza del maggiordomo, con tanto di vassoio e uovo di Colombo servito à la coque.
Sceneggiatura deficitaria a parte, rimane lo svolgimento, che nell’horror, come nei temi della maturità, è praticamente quasi tutto. E quindi lode ai cunicoli di stampo asfittico: montavivande, ascensori portata max una persone magra, celle obitoriali, passaggi aerei di fili elettrici e tubi di riscaldamento ,corridoi diurni e soprattutto notturni. Meno lodevolmente inficiati però dagli attesi colpi di scena, che qui equivalgono al buuuh del cuginetto, quando esce da dietro la tenda damascata del salotto.
Allora si presta orecchio alla colonna sonora, che avendo pagato il biglietto e i farmaci ci si dovrà pure atterrire almeno un poco. Ma è dello stesso John Carpenter, evidentemente non in vena né a suo agio nemmeno sotto questo aspetto.
Rimangono alcune sequenze prese dal basso all’alto, a tracciare la visualità prospettica delle pazienti sdraiate, e i colori di cui si è già detto. Nonché gli apprezzamenti a denti un po’ stretti dei fan fanatici, che ricorrono alla parola classicismo per giustificare un fallimento. A loro uso, dicesi classica una concezione universale, immutevole ed eterna della bellezza ideale che si esemplifica in opere tali da assumere un ruolo normativo ed esemplare. E allora ridateci Fog e The thing. Con il sollievo e le rimostranze del recensore che, riguadagnando il sole, si è sentito tanto intrepido e ardimentoso quanto buggerato.
THE WARD di John Carpenter, Usa 2010, durata 86 minuti