THE HATEFUL EIGHT
Eccoci dunque a quello che potrebbe essere il miglior film di Tarantino dopo i suoi precedenti migliori film e che , anticipiamolo rozzamente , è invece inferiore a Django unchained e imparagonabile a Bastardi senza gloria , per non spingerci troppo indietro nel tempo . Sgombrato opinabilmente il campo aggiungiamo che non staremo a dilungarci sulle citazioni e sulle strizzate d’occhio , ma ci adegueremo subito al regista nell’irriverenza sommaria , nominando , per la primissima parte , solo la diligenza di Ombre rosse , ispirata a John Ford dalla novella di Maupassant Boule de suif ; e , per la seconda , un’ Agatha Christie in versione pulp , giusto per non andare oltre . Anche se sappiamo che dare esplicitamente della iena a Kurt Russell ( indimenticato Jena Plissken in Fuga da Los Angeles – 1996 ) è un frisson cinefilo che promuove senza sforzo al club degli intenditori .
Ma ricominciamo dall’inizio . In uno Wyoming che in tempi meteorologicamente normali potrebbe essere anche Pragelato , avanza una diligenza incalzata da una tempesta di neve . Il bianco ottundente annulla il contesto riducendolo ad un mero problema di vita e di morte , oppure alla metafora del viaggio cieco lungo cui si incontra sempre e inopinatamente qualcuno , come nelle metafisiche favole per l’infanzia . L’inquadratura torreggiante di un Cristo in croce non promette nulla di buono , e il tono enfaticamente forbito – retorico dei dialoghi , sottolineati dalla musica di Morricone , ci dice che siamo a teatro , ossia in luoghi comunque chiusi , e non importa che si tratti di sterminati campi candidi o di una scura stamberga di posta .
Incrocio tra un’ispirazione western problematizzata e arricchita dai postumi recenti di una guerra di secessione che tira in ballo nordisti e sudisti , bianchi e neri , militari e banditi , The hateful eight si pone come una striscia disegnata sull’identità sia di una nazione che di singoli personaggi : nessuno è quello che spiega e illustra , anche se tutti sono come appaiono , ossia duri , sanguinari , determinati , rotti all’inganno eppure pronti a dissertare sulla giustizia civile rispetto alla giustizia di frontiera , riducendo la propria persona al valore di mercato delle rispettive taglie .
Ricondotto a pochi primari interpreti , fra cui giganteggia il veterano di colore Marquis Warren – Samuel L. Jackson – la pellicola è nettamente divisa in due lunghi momenti , in cui prima si stratificano le intenzioni dichiarate e le caratterizzazioni dei vari personaggi , e poi scatta il meccanismo delle interazioni , dell’intrigo e dei disvelamenti che ridanno un po’ di fiato all’impronta enigmistica del film . Impronta però così lungamente pensata e cesellata da risultare esaustamente cervellotica , con tutte le goffaggini di un mistery a tesi che non riesce ad essere pienamente tale , brancolando troppo tra innesti di generi , velleità sociopolitiche , interrogativi esistenziali .
La trama – di cui volutamente tacciamo – potrebbe tuttavia non essere essenziale rispetto al modo di rappresentarla . Ma qui purtroppo scattano tutte le contraddizioni di uno spettacolo pur accattivante sotto il profilo tecnico e fotografico : la duttilità flessuosa della macchina da presa si pone in diretto antagonismo con la truculenza quasi pomodoresca dei fatti , senza generare adeguate frizioni ; i tagli della storia non trovano un equilibrio tra prologo e svolgimento , e nella seconda parte al chiuso si torna anche indietro e altrove di flash back , con uno scolastico commento fuori campo , come se le giravolte del marchingegno non fossero sufficientemente autoesplicative ; il racconto di un’avventura teoricamente godibile si impiglia in verbosità di maniera senza che i personaggi vengano ulteriormente approfonditi rispetto alla preponderanza dei loro marcatissimi connotati somatici e gestuali ; l’estroflessione più fisica che psicologica delle ossessioni sia degli interpreti che del regista si aggrappa a meccanismi schematici e pretestuosi ; l’introduzione del rapporto maschi femmine è adombrato in maniera tradizionale , mentre più problematicamente morbosa risulta la sessualità maschile del protagonista negro . E si potrebbe continuare con le antitesi : anche se irrisolte , da qualche parte si vorrebbe trovare un argine alla noia che aleggia , nonostante le insidie naturali ed umane . Quello che ambirebbe a porsi come un pastiche anticonvenzionale diventa viceversa un quasi pasticcio lentissimo che stenta a decollare come a concludere .
Forse , invecchiando , si diventa più impazienti , si vorrebbe essere maggiormente sorpresi e stupiti , magari perchè si è visto troppo , da troppo tempo . Detto altrimenti , questo sembra essere più un film per giovani , non diversamente dal pur diversissimo cult Machete ( 2010 ) . Eppure Tarantino ci piace molto – quando ci piace – la macelleria non ci disturba , l’inverosimiglianza , l’artificiosità , le ibridazioni nemmeno , ma le velleità e le dilatazioni non funzionali sì , anche se inequivocabilmente d’autore . Rimane , indelebile , non tanto il tormentone abusato della porta , quanto quello della lettera di Lincoln , che si pone come la migliore intuizione poetica e narrativa di uno spettacolo a metà , più intenzionale che risolto . Anche ritenendo di conoscere il gioco e di saperci stare .
THE HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino , Usa 2015 , durata 167 minuti