THE BEATLES
John Kennedy veniva assassinato , la bomba atomica si allargava sullo sfondo in forma di grande fungo , la segregazione razziale era indiscusso costume , la guerra del Vietnam continuava a non finire … eppure gli anni dal 1962 al 1966 furono illuminati da quattro adolescenti di Liverpool che , da palchi come tinelli , diedero il via al primo fenomeno di empatia planetaria fra musicisti e pubblico . E la sorpresa fu tale da accompagnarsi immediatamente agli interrogativi sulla sua fine , come se la gioia dovesse essere per sua natura brevissima . Invece , con l’improntitudine spontanea di chi è nella propria pelle , i quattro modificarono di colpo secoli di regole codificate , facendo urlare di commozione stuoli di ragazze che somigliavano senza saperlo alle loro madri : le gonne a pieghe , i capelli non ancora affrancati dalla permanente ma già avviati ad allungarsi naturalmente , il trucco ingenuo che si sfaceva nel pianto dell’isteria collettiva , le note ritmate pronte a divenire l’unico fenomeno culturale veramente di massa .
Tutto è già stato detto , spulciato , spiato , illazionato , mitizzato e inventato sui Fab Four , eppure Ron Howard riesce a fare di un documentario più volte visto una sorta di poetico film ormai in costume e di costume , spigolando fra spezzoni noti , registrazioni sepolte , testimonianze datate o attuali che hanno il pregio di riassumere con assoluta semplicità il significato di un’avventura senza precedenti : l’identità differenziata eppure univoca di un gruppo di sodali accomunati visivamente da un caschetto di capelli androgino , gli abiti da piccoli lord impiegatizi , sognati da una classe lavoratrice che vuole evadere da se stessa ; l’intonazione assoluta che non si riferisce solo al suono , ma permea anche le parole e i gesti ; la stupefacente produzione fordistica che contempera qualità e quantità passando per misteriosi cottimi creativi ; la capacità di rappresentare un mondo in cui ” si aveva la sensazione di essere davvero benvenuti”.
Avvitato affettuosamente , ma con minimalistico rigore , intorno al modo di essere di individualità che interagiscono fra loro e rispondono liberamente agli altri , The Beatles non fornisce solo un ritratto di gruppo dall’interno , ma riesce ad esternalizzarne gli effetti sulle masse , stabilendo una simmetria naturale che è nel contempo anatomia umana e analisi sociologica , tanto da esaltarne sia le energie che le minacce latenti senza rincorrere la celebre orecchiabilità della colonna sonora , se non per accenni brevi e mai compiacenti , in modo da mettere quasi la sordina ad un film eminentemente musicale .
La sua raffinata geometria strutturale si dispiega , pur rispettando la cronologia , dapprima in orizzontale , allargandosi per cerchi concentrici dalle sale di Liveropool ai grandi stadi della terra , e poi riprende il senso verticale dell’ascesa iniziale nel culmine della fine : i soliti quattro , ormai diversi nell’abbigliamento , nel pelo , nei destini , a cantare per un’ultima volta a se stessi e al mondo dal tetto della loro casa discografica londinese , in un momento di intimità globalizzata che sostituisce alle masse di un tempo pochi passanti sulla strada e alcuni curiosi alle finestre .
In fondo , una pellicola commossa sulla giovinezza , la loro e la nostra che siamo stati da loro accompagnati sia in diretta che in seguito , con quel tanto di nostalgia e di malinconica consapevolezza intorno ad un futuro allora costruito sulla speranza e sull’attesa . Ignari che sarebbe passato comunque troppo in fretta : i quattro diventati due , e ognuno di noi per la sua strada .
THE BEATLES – EIGHT DAYS A WEEK di Ron Howard , Usa 2016 , durata 99 minuti