STEVE JOBS
Che la figura di Steve Jobs si ponga fra le più influenti degli ultimi trent’ anni , sia in campo imprenditoriale che socioculturale , credo sia vero al di là di ogni agiografica o denigratoria mitologicizzazione . Così come è vero che ricordo l’emozione dei miei primi solitari passi sul mio primo Mac , con un disegnino non dissimile da quello della figlia bambina del film . Mentre non so se sia reale il fatto che tutti i miei tre modelli Apple abbiano una loro precipua personalità , ma mi piace animisticamente pensarlo , visto che ho intrattenuto e intrattengo con ognuno un affettuoso , ricambiato rapporto . E il fatto che sia indirettamente grata al personaggio non smorza le aspettative nei confronti di questo ennesima pellicola biografica , semmai acuisce lo spirito critico , dopo analoghe prove cinematografiche , una peggiore dell’altra .
Invece l’ultimo film di Danny Boyle brilla di luce propria anche senza la mortificazione di raffronti al ribasso, e il suo merito non consiste tanto nell’esattezza dei fatti , nella spiegazione dei retroscena e nemmeno nel tratteggio comunque arbitrario di un carattere perfino troppo impudicamente chiacchierato e frugato , poichè rimaniamo misteriosi a noi stessi , moltiplicati dai diversi punti di vista degli altri , e comunque inevitabilmente fraintesi , chiunque noi si sia o si sia stati . Questa luce propria si fonda felicemente su pochi arbitrarissimi punti cardine : la scelta di attori eccezionali e per nulla intimiditi dalla sfida , con un particolare plauso a Michael Fassbender ( duttile nel suo elegante busto lungo su gambe troppo corte ) che si cala con passione nei panni del protagonista , sprezzando ogni inutile verosimiglianza fisionomica . L’attenzione dirimente a tre soli momenti topici ( il lancio del primo Macintosh nel 1984 ; quello del black cube marchiato NeXT nel 1988 ; infine la presentazione dell’iMac nel 1998 ) mentre nel frattempo si sono consumati il licenziamento dalla Apple , la fondazione di una nuova azienda , la riacquisizione della prima . La velocità ansiogena dei momenti della narrazione , contraddittoriamente in bilico tra la perentoria cogenza degli eventi e la dilatazione senza tempo degli intoppi , privati e professionali , che li precedono .
Si penetra quindi , quasi voyueristicamente , in un “dietro le quinte” che riesce a contemperare l’estrazione tipicamente teatrale dei luoghi chiusi ( i ricorrenti personaggi al contorno entrano ed escono sempre dalle stesse porte ) con l’esoterismo di dialoghi serratissimi , in cui si mescolano dati tecnici , elementi di marketing , intuizioni ostinate , contrasti apodittici , miserie amichevoli o sentimentali , mentre prima il pubblico – e poi il mondo – attende fuori senza che mai venga mostrato o ripreso uno solo degli attimi ufficiali di una ormai fin troppo celebrata leadership . Tutto è affidato alla parola e alla gestualità , ma l’eccesso delle esplicitazioni riesce ad essere nel contempo misteriosamente allusivo : i tratteggi psicologici rimandano così a quinte ulteriori , dove si celano sia le motivazioni di un desiderio feroce e di una anafettività ambigua , sia le controreazioni devote o critiche .
Trascorrono così visionarietà razionali e rabdomanzie intuitive che solo il successo renderà poi profetiche , come meschinità venali nei confronti di una ex moglie e di una figlia a lungo non riconosciuta . Tutto potrebbe scimmiottare il dramma di uno Shakespeare volgarizzato e portato in superficie dalla modernità , eppure il regista non cade nella trappola delle frasi ormai celebri ( stay hungry …) e stempera con parsimonia la tentazione aforismatica , che spesso ha la pretesa di sigillare verità universali atte a suonare bene dicendo poco . Con la sola eccezione di un’unica metafora , cui Jobs si ispira per spiegare che i collaboratori suonano i loro singoli strumenti , mentre lui non dirige , bensì è l’orchestra .
Storia industriale e intellettuale che non diventa mai nè caso aziendale nè monumento di psicanalitica pretesa , Steve Jobs è solo in apparenza l’esegesi di un’unica figura . Si pone invece come un ispirato gioco di squadra in cui un’intera equipe professionale ( sceneggiatore , scenografi , fotografi, montatori , attori e regista ) concorre nel rappresentare tre episodi affollati nella vita di un uomo celebre e dei suoi compagni d’avventura , senza la pretesa di giudicarne la verità più profonda . Che viceversa è soprattutto affidata al reagente femminile del film , l’onnipresente prima assistente Johanna Hoffmann ( un’altrettanto brava Kate Winslet , esemplare coscienza critica ) pronta ad accusare riassuntivamente il protagonista di vivere in una specie di distorsione della realtà . Cosa che non gli impedisce di perdere , di vincere , di continuare a immaginare all’interno di uno spettacolo a sua volta ispirato narrativamente allo stesso principio , declinato lungo l’esasperazione di un tempo insieme reale e mitologico , tale da far assurgere l’intero film ad una sorta di ritmatissimo apologo psico-cronachistico , lanciato in corsa da una singolare , quasi presaga urgenza esistenziale .
STEVE JOBS di Danny Boyle , USA 2015 , durata 122 minuti
,