SORELLE MAI
L’assedio e il ritorno, di Franco Ferrucci (Bompiani, 1974)è uno dei più bei saggi su Omero e sugli archetipi della narrazione, poco letto e molto dimenticato. Il cui titolo ci è venuto in mente a proposito di questo film. Che affronta in modo personalissimo il sempiterno tema delle lusinghe esistenziali della giovinezza , quando non solo si desidera sempre più di quello che si otterrà, ma magari si sbaglia anche sul cosa desiderare, prendendosi per quello che non si è o non si può diventare. Per cui dapprima i solidi bastioni della famiglia sembrano un soffocante assedio ,e quindi si combatte contro le proprie radici tentando di trasformarsi da alberi in uccelli. Mentre in seguito, a mano a mano che il vivere verifica le speranze, si comincia a comprendere che la vera guerra è fuori, ritornando proprio a quelle origini che non appaiono più come fortificazioni limitanti da cui evadere, bensì rifugio lenitivo dalle ferite di un destino erroneamente vagheggiato. E , comunque vada, puntualmente smentito.
E’ quanto ciclicamente accade ai due principali protagonisti, fratello e sorella, che si sono allontanati per ambizione da una realtà domestica confortata da due candide zie che , come tutte le vestali, vivono da sempre per procura, immutabili accogliendo e accudendo. E che hanno, rispetto ai genitori, l’incommensurabile pregio di non essere tali, tralasciando l’autorità e la psicanalisi a favore della generosità del dare senza nulla pretendere. Mentre Sara e Giorgio sono, fuori le mura, due attorucoli falliti; lei ,ostile al matrimonio , ma con una bimba, Elena, che cresce nel nido avito, a carico delle due anziane parenti. Lui, in preda ad amori deludenti ed ad affari oscuri, inframmezzati da qualche progetto cinematografico più o meno estemporaneo. Intorno, il ripetersi preciso dei pasti consumati insieme, secondo un rituale nutritivo che è la prima e più profonda forma del ritrovarsi. E poi, per cerchi concentrici: l’antica e spaziosa casa borghese, in cui orologi uguali scandiscono i gesti dell’abitudine , e il benessere acquisito si raccorda con la semplicità civile dei costumi e della cera sui mobili ; l’anziano amministratore di fiducia a far da maschile nume tutelare della piccola comunità; il delicato e sonnolento paese di Bobbio, a offrire tutte le modernità disprezzabili dalle grandi città; e ,a concludere il perimetro, l’abbraccio del domestico fiume infantile ,intorno a cui si rastremano i giochi , i litigi fraterni, le riappacificazioni. Quelle di un tempo, come quelle delle sei estati narrate ,fra il 1999 e il 2008.Perchè se aprile è il più crudele dei mesi, è sempre l’estate la stagione che riassume il senso degli anni e amplifica le nostalgie.
Con questo film, Marco Bellocchio, ad una età in cui ogni tramonto comincia a configurarsi come un’urgenza, ritorna sugli stessi luoghi de I pugni in tasca (1965), dirompente, crudele e fortunatissima opera d’esordio, quasi ad uscire a sua volta dall’assedio che quel film deve aver costituito per la sua carriera e per la sua vita; perpetrando un ritorno che stempera la rabbia e la ribellione passate in un catartico quanto struggente abbraccio. Mettendo in scena i propri ricordi, e la propria stessa famiglia(le sorelle, il figlio,la bambina),secondo episodi filmati “dal vero” nel corso di sei anni consecutivi. Alternati a brevi sequenze in bianco e nero tratte dal suo primo titolo ,ad esorcizzare la lontananza , come a chiudere il cerchio di un percorso.
E compie questa operazione con talento concentrato e minuzioso , tracciando una parabola di assoluzione che però cerca di prendere le distanze da qualsiasi deriva sentimentale . Quasi che una partecipazione non filtrata da una progettualità pluriennale potesse venir tacciata di una sorta di intimismo alla Avati.
Per cui, se da un lato vediamo come in nessun altro film crescere effettivamente la bambina fino all’adolescenza, e invecchiare progressivamente gli altri protagonisti, dall’altro la naturalezza dell’esperienza privata viene in qualche modo “teatralizzata”. Di conseguenza, quasi tutte le sequenze sono tagliate in due nel senso della profondità: in primo piano i volti e i corpi degli attori; sullo sfondo, i dettagli come fantasmi: sia del vecchio film, che della vita in corso. Alternando nitori e sfocature secondo un intento preciso che trova la sua melodrammatica conclusione operistica proprio nel finale ad effetto. In sintonia con il mestiere dei due fratelli, i loro monologhi da Shakespeare come da Checov, nonchè l’inserimento paradigmatico dell’episodio affidato alla Rohrwacher.
Ne sortisce un film talentuoso , ma più intellettualmente coinvolgente che emozionante, nonostante tematiche e dettagli certamente vicini all’esperienza privata di molti spettatori. E che, a sensibilità nostra, comincia a perdere di unità a partire da circa tre quarti,in contraddizione con il dichiarato dello stesso regista. Che sostiene di aver filmato i vari spezzoni negli anni “per il puro piacere di farlo”. Mentre qualche cosa ancora duole, senza trovare sbocco.
Il suo lungo percorso ha scavalcato, sempre superandoli, vari”periodi”: dal politico allo psicanalitico fino all’ultima fase meno sperimentale e più classica, sempre dicendo qualche cosa di interessante anche nelle opere meno riuscite. Questo poteva essere , se non un capolavoro, un film notevole, se solo si fosse abbandonato di più. E,invece, da qualche parte, ha ancora una sorta di pudorosa frigidità costruita, quasi a dimostrazione del fatto che non tutti i coaguli si sono sciolti..Forse è un augurio, a significare che la ricerca deve continuare.
Sorelle Mai , di Marco Bellocchio, Italia 2010, durata 110 minuti.