SILVIO FOREVER
Premettiamo che siamo andati malvolentieri a vedere questo documentario: dopo 17 anni, diventa difficile addormentarsi pacificamente la sera, sapendo che si verrà puntualmente rivisitati dallo stesso incubo. E che quest’incubo ci verrà riproposto per l’occasione anche di giorno, come gli odiati ripassi prima degli esami. A maggior ragione inutili, perchè li abbiamo già sostenuti e anche i tempi dell’università sono ormai alle spalle da un pezzo.
Comunque, visto che si doveva fare per ragioni d’ordinanza , ci eravamo riproposti di assistervi dall’interno di una bolla anestetica, ignorando il soggetto e concentrandoci sul modo di trattarlo, quasi che sullo schermo si proiettasse un film su Hugh Hefner, Pietro Gambadilegno o Betty Boop.
Invece, almeno per il primo quarto d’ora, l ’umore si è risollevato un po’, nel senso che il ripasso in qualche modo anche autobiografico – perchè pure noi c’eravamo – funziona: ci si imbatte in piccoli particolari che erano andati perduti e, soprattutto , sale quel sentimento che sta tra lo stuporoso, il malinconico e il competitivo, tipico di quando si incontrano persone che non si vedevano da un po’, e si costata che sono particolarmente invecchiate. Volendo in qualche modo dimenticare che a loro volta pensano la stessa cosa nei nostri confronti.
Poi, a mano a mano che si comincia a sgocciolare verso la contemporaneità, si viene assaliti dal quel senso di sazietà che coglie ai compleanni dello zio pescatore, con la puntuale riproposta dello stesso brindisi, delle stesse arguzie stantie, dello stesso filmino con la carpa gigante che pende rassegnata , e ci si ingozza di una torta mediocre per distrarsi in qualche modo dalla noia dell’iterazione. Visto che solo nell’infanzia si dovrebbe amare l’ascolto della stessa fiaba, identica nel rassicurante riproporsi del sempiterno Cappuccetto rosso.
Alla fine , poi, tutti i propositi di atarassia vanno a farsi benedire , e la solita domanda riaffiora come un rigurgito, più che un singhiozzo. Ma come è possibile? Come è possibile che non si sia capito già dal primo sguardo, o dal primo vulnus uditivo, che Vanna Marchi era quella che era, senza nemmeno la scusa depistante di un vestituccio da suora , e invece di proporre prodotti imbellenti/dimagranti stava solo mirando al suo/nostro portafoglio, oltre che all’incensamento del proprio ego? Al punto che la giusta pena che le è infine stata comminata avrebbe dovuto in parte essere traslata anche ai truffati, almeno sotto forma di qualche servizio civile obbligatorio. Perchè anche la dabbenaggine deve conoscere un limite.
Non c’è risposta , oppure ce ne sono troppe. Del resto il pubblico in sala era rarefatto come le prede ittiche dello zio , e tutto composto da spettatori masochisti; dichiaratamente – anche ad alta voce – contrari al protagonista della biografia non autorizzata, come recita il sottotitolo della pellicola. In una sorta di riunione per adepti ammaccati, che senza volerlo a loro modo ricelebravano un’ossessione. In fondo, a riprova del mito. I sostenitori naturalmente altrove, a godersi il meglio di due orette viceversa buttate via dagli altri.
Perchè il film, senza invocare Michael Moore, non fa nemmeno quello che dovrebbero fare dei telegiornali seri, nei confronti di qualsiasi politico: a fronte di dichiarazioni importanti, riproporre comparativamente le contraddizioni precedenti: pratica particolarmente fertile, nel caso specifico.
Si limita viceversa a incollare spezzoni di vita, dichiarazioni in viva voce, o riproposte da Neri Marcorè nei casi di audio rovinato, con una contrapposizione – neanche un contraddittorio – particolarmente limitato ( Travaglio, Montanelli, Biagi ecc). Ne nasce una sorta di excursus autocommentato, dal culetto non flaccido delle foto infantili ai giorni nostri, nel suo insieme del tutto risaputo per chi abbia almeno frequentato – se non i giornali – le notizie televisive, la radio e /o la rete .
Certo , qualche momento sapido c’è, come nel caso delle dichiarazioni di mamma Rosa rispetto all’assenza di donne nella vita del figlio, ma si sa, ogni scarrafone..Per il resto, la voluta neutralità è data probabilmente dal presupposto che l’ipertrofia egotistico-delirante di un piazzista che usa l’imbonimento fino al patetismo quando non alla ferocia, si autorappresenti e si commenti da sola. Venendo quindi meno sia il film di denuncia sia il semplice documentario. Che tace su tutti i risvolti di politica interna ed estera, per non parlare delle logiche e dei retroscena sottostanti agli innumerevoli processi.
Se ne esce più scontenti di prima, come sempre accade quando i presentimenti infausti si avverano. E non perchè si sia dei sanguinari comunisti ( visto che la dicotomia destra /sinistra si va facendo via via più antistorica, svuotandosi di significato ) ma semplicemente perchè era e sarebbe sufficiente un minimo di disattenzione in meno, per avvistare da subito – ma andrebbe bene anche tardivamente – tutti gli inquietanti segnali della fisiognomica di Lombroso, che già nel 1893 aveva dato alle stampe La donna delinquente. Non si tratta quindi di odio, ma di disistima – questa sì forever- verso il soggetto, e di tristezza nei confronti di una nazione che sta andando – semplici cifre alla mano – alla deriva, accontentandosi di plaudire o di irridere i soliti mascheroni da commedia dell’arte.
Una unica piccola consolazione personale: siamo riusciti a non nominare Balanzone, vietandoci altresì qualsiasi tentativo di interpretazione del fenomeno. E se, dopo l’infausto ripasso su un testo pieno di lacune, verremo anche bocciati, ce ne faremo una ragione. Ragione che continuiamo viceversa a non farci sulle condizioni di questo paese, a 150 anni dalla sua unificazione. Per problemi di estetica, prima ancora che di etica , e poi di raziocinio, di cultura. O di semplice opportunità/convenienza.
SILVIO FOREVER di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, Italia 2011, durata 85 minuti