SHAME
“Agiamo in funzione di ciò che desideriamo”. La frase potrebbe appartenere – e di fatto appartiene – tanto ad uno dei personaggi di quell’affascinante baraccone che è stato la serie televisiva Lost come ad uno scritto di Lacan. Ma cosa succede quando il desiderio non è padroneggiato, ossia quando il desiderio non viene deciso dal soggetto, ma decide del soggetto? Diventa insoddisfazione perenne, coazione compulsiva a ripetere, tecnicamente più disturbo isterico (o istrionico) che vizio: una sorta di “cosificazione” dell’essere.
E come “cosa” appare fin dalla prima, lunghissima inquadratura, il protagonista Brandon; nudo e nel contempo annullato da un lacerto tessile blu ottanio, che è il colore del film, magnificamente declinato in tutte le sue sfumature, come un lungo livido lacero-contuso sulla pellicola. Che rappresenta, più che raccontare, un imprecisato trenta-quarantenne, in una imprecisata New York simile ad un’ anonima Londra. Intorno, metropolitane da incontri occasionali, uffici vetrati che rifrangono e annullano il ripetersi di indefinibili occupazioni indirette, destinate a produrre un niente ben retribuito, con gente onnivoramente disponibile perché desiderosa di spezzare multipli isolamenti. Mentre Brandon è viceversa un anaffettivo solitario che pone il sesso al centro della sua vita: in gruppo, in coppia, da solo, purché la ricerca che lo anima non lo metta nella condizione di trovare un punto di approdo nello stabilire dei rapporti, nemmeno con se stesso. La sua ossessione infatti non è tanto focalizzata sul desiderio come potenza o come eros (e perciò sempre in grado di riconoscere l’altro) bensì teso alla serialità anonima. In cui solo il continuare per continuare gli assicura di essere vivo in un universo di morte quotidiana.
La storia c’è, ed è in particolare legata alla presenza di una giovane sorella (a sua volta tanto promiscua quanto speculare) ma è come se non ci fosse. Perché l’attenzione del regista è tutta centrata sui dettagli: il rumore della veneziana ogni volta rialzata alla fine di ogni copula, le tecniche sempre uguali di abbordaggio, la casa come un acquario di nitida rappresentanza, il telefono inascoltato che ripete messaggi di supplica, il computer che ansima sempre le stesse litanie oscene….
Proveniente dalla video art, il regista Steve Mc Queen (di cui abbiamo visto alcuni saggi alle Biennali veneziane del 2007 e del 2009) è qui alla sua seconda prova (non confrontabile con la prima, perché Hunger, Camera d’oro a Cannes nel 2008, non è mai stato distribuito in Italia). Ed è interessante notare come in Shame sia riuscito a coniugare efficacemente la primigenia vocazione artistica con una intensa ispirazione filmica. A partire dalla sceneggiatura, puntualissima sia nei ritratti umani come negli scarni dialoghi; ben calibrata, e senza manierismi, anche nelle situazioni, nelle ambientazioni come nella colonna sonora.
Ne risultano un ritratto individuale indelebile, in grado di cesellare un intero manuale di psicologia senza pronunciare una sola parola in merito, nonché un interessante apologo socio-etico non tanto su di un caso clinico, quanto su una delle tante possibili derive della “modernità desiderante”. E basterebbe, in proposito, la scena in cui la sorella canta New York New York, diluendola in una sorta di lentissimo, quasi inarticolato canto funebre; o il progressivo disfarsi del protagonista non tanto in un urlo munchiano, quanto nell’animalità primigenia e interrogante dell’uomo baconiano, a significare l’inferno orizzontale dell’assurdità di esistere, giorno dopo giorno.
Molte le suggestioni sia estetiche che di pensiero e tante le reazioni possibili, ma un solo suggerimento: si astengano i porno romantici pruriginosi, perché l’unica cosa che in tal senso potrebbero apprendere è la rivelazione che gli uomini fanno la pipì in piedi. A chiosa dell’intenso battage sulla prestanza del protagonista Michael Fassbender, premiato al festival di Venezia dello scorso anno – che viceversa riesce ad essere intensamente e consapevolmente atono, oltre che non avvenente – in simbiosi autentica con la brava Carey Mulligan e con tutto lo svolgimento del film, che chiude irrisolto e silente su di un dubbio di fondo: meglio di molti thriller…
SHAME di Steve McQueen, Gran Betagna 2011,durata 99 minuti