ROOM
Il prequel è purtroppo tutto nelle cronache , dal caso di Elisabeth Fritzl ( segregata in un bunker dal padre per ventiquattro , lunghissimi anni , e resa madre di sette figli concepiti nella doppia violenza dello stupro e dell’incesto ) a quello delle tre ragazze rapite a Cleveland , trattate come gregge di proprietà per un decennio . Sicchè lo spettatore , imprigionato da subito in una squallida baracca inesorabilmente sbarrata , sa che il rapporto esclusivo tra la giovane madre e il figlio bambino è frutto di un precedente che ha poco da spartire con il tentativo , patetico e poetico , di ricreare un mondo solipsistico a due . Le giornate scorrono lungo un tempo artificiale , segnato dalla luce elettrica e dalla dipendenza da un mostro che , venendo da fuori , trasforma in sopravvivenza proprio quella vita che ha contribuito a togliere all’una e a dare bestialmente all’altro , mentre Ma’ e Jack si riparano in un legame assoluto in cui l’animismo del piccolo saluta ogni mattina i pochi oggetti come unici compagni dell’unica esistenza che conosce : minacciata , incarcerata e , nel contempo , paradossalmente protetta .
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Tutta la prima parte del film è giocata su una finzione realissima piena di affetto , in cui anche un topo o una foglia secca sono simbiotico pretesto di gioco e complicità , finchè la rivelazione di un altro mondo esterno diventa un’iniziazione traumatica propedeutica alla fuga . E qui in poche ansiogene sequenze si rastrema il punto emotivo più alto della narrazione , che addirittura obbliga la platea a sostituirsi al protagonista , prestandogli il proprio fiato e la propria voce , ma come nei sogni , in cui si cerca di correre e di parlare , e nel contempo si vive l’inquietante certezza di un irrealistico altrove . Poi la liberazione avviene e la normalità buca la placenta di una lunga sospensione , lasciando che tutti i problemi accantonati scorrano come un liquido amniotico verso una vita finalmente qualsiasi , con i complessi adattamenti che la libertà comporta in termini di scelte e di interazioni .
Imperniato sulla dialettica fra i punti di vista del bambino e quello non tanto dei co-protagonisti adulti , quanto degli spettatori , la pellicola nasce sotto la duplice minaccia della ruffianeria solitamente legata alle presenze infantili e della cesura fra la prima e la seconda parte della storia . Eppure , nonostante le progressive diluizioni di climax e di tono , si sottrae sia agli imbonimenti orrorifico – melensi sia ad un’eccessiva discontinuità di pathos , ma scorre anzi con mano ferma e consequenziale dall’inizio alla fine . Grazie al copione scritto dalla stessa autrice di Stanza , letto armadio , specchio e ad una regia che lo asseconda nei tagli narrativi e nella conduzioni di due bravi interpreti , capaci di non strafare ( Oscar 2016 alla giovane Brie Larson e speriamo in bene , anche se le nostre candidate erano altre ) .
In questo caso la contemporaneità divulgativa segna un punto a proprio favore , nel senso che riesce a coniugare efficacemente i piani dell’esplicito e dell’implicito : la storia convince nell’illustrazione di un caso limite tutto giocato sull’ambiguità del concetto di conoscenza e di quotidianità , e nell’adombrare senza intellettualismi i problemi esistenziali che la vicenda comporta . Apre infatti a temi complessi : il senso della realtà tra effettività e immaginazione ; la soggettività in termini di rappresentazione / comprensione dei fatti ; la nostalgia genetica del raccoglimento uterino , ossia della vita protetta dalla vita ; i dilemmi emotivi inerenti la maternità scelta o subita . Semplificandoli senza banalizzarli e lasciando al pubblico la libertà di dispiegare soltanto i fazzoletti o di leggere senza lacrime anche oltre le immagini .
ROOM di Lenny Abrahamson , Irlanda 2015 , durata 118 minuti