RANGO
“Nessuno può uscire dalla propria storia”. Dopo “Era una notte buia e tempestosa”, la frase potrebbe appartenere a un nuovo tormentone letterario di Snoopy. Invece siamo dalle parti di Pirandello, con un attore in cerca di un personaggio; o, per meglio dire, di un camaleonte in cerca di un’identità. Sì, perché Rango, rettile squamato con una camicina hawaiiana pendente dalle spallucce, prova magniloquente una serie di parti, complici una palma così attonita da sembrare disegnata, un rottame di bambola nel ruolo dell’amorosa, e un pesce di plastica con pirolo per la ricarica.
Nell’universo rarefatto e annoiato del proprio acquario, è regista e protagonista di mille
avventure. Finché un incidente lo sbalza dal veicolo che lo trasporta, e la sua giovinezza onnipotente ma protetta si spiaccica sull’asfalto di un’autostrada sfinita dal solleone. Inizia così, con una sequenza fulminante, uno dei più bei film animati per adulti, perché la tecnologia grafica è magnifica e l’argomento è alto. Lo testimoniano da subito quattro gufi schitarranti vestiti da messicani che commentano le gesta del nostro con siparietti musicali – non dissimili da quelli deliziosi di Babe, maialino coraggioso (1995), ma riorientati verso il coro della tragedia greca – a segnare l’inizio di una destinazione che si farà destino.
Sicché lo sprovveduto, verboso, sgargiante camaleontino, così pusillanime da rappresentarsi come un gradasso ipertrofico, esce dal parallelepipedo del proprio abitacolo infranto, ed entra nel rettangolo cinematografico del genere western, ancora una volta metafora di iniziazione alla vita, continuamente in bilico fra il bene e il male, il respirare o il soccombere. Gli si fa incontro sotto la specie della cittadina di Polvere, assediata dalla siccità, egemonizzata da un sindaco che padroneggia l’acqua (e quindi ha potere di vita e di morte), nonché minacciata da un falco rapace. Tutto secondo i dettami rilanciati a suo tempo da Sergio Leone, volti a deprivare l’avventura di ogni paradigmatica bellezza o virtù, per restituirla alla realtà del fango, del gioco sporco, della disillusione. Nei panni dell’eroe suo malgrado, sempre prossimo a ribaltarsi in capro espiatorio della comunità, dovrà vedersela con vari accidenti, compreso quello del male che protegge da un altro male (perché il falco affrontato e fortunosamente abbattuto teneva lontano un serpente…).
Tutta l’impresa è una citazione estetica e i riferimenti si sprecano. Allusioni e metafore esistenziali vengono dopo, perché l’azione è concitatissima e densa di dettagli, spesso in bilico tra il catastrofico, il fantascientifico e il musical. Ma all’interno di un perimetro ben contrassegnato dall’incombente estetica del paesaggio e dalla fusione con esso degli abitanti come delle suppellettili e degli attrezzi. Così che ogni cosa è propedeutica al divenire dell’eroe, simbolicamente contrassegnato dall’arricchirsi progressivo dei suoi costumi: via la camicina per la tutina smilza da pistolero, spazio alla sublime retorica di camperos muflonati, giubbotti borchiati, colt luccicante. In un’apoteosi della fisiognomica che fa di lui – incrocio corporale fra il campione dei sofficini Findus e il grandangolo degli occhioni alla ET – un indimenticabile eroe suo malgrado, ballista e dubbioso al punto da prender tempo per qualsiasi domanda, ripetendola più volte prima di compromettersi in qualsiasi risposta, eppure costretto dagli eventi ad addossarsi ogni sfida.
Animato dalla Industrial Light & Magic, che debutta nel genere, e con le voci di attori famosi (in primis Johnny Depp, pirata dei Caraibi per lo stesso regista), di cui certamente nel doppiaggio perdiamo molto, il film è un miracolo di tecnica al servizio di un linguaggio registico innovativo e al tempo stesso robustamente piantato nella tradizione. Si vedano l’utilizzo delle riprese in soggettiva e il continuo alternarsi di sequenze su campi molto lunghi, improvvisamente interrotte dagli squarci dei primissimi piani sui dettagli naturalistici come sui personaggi al contorno, ognuno dei quali realizzato secondo una sintesi spugnosa di tutti i vari caratteristi dei western. Originale la colonna sonora, con musiche di Hans Zimmer e canzoni dei Los Lobos, invasiva come la grafica, unico grande tradimento perpetrato nei confronti dei lunghi silenzi densi di suspense di Sergio Leone.
In tempi di Avatar, che qui parrebbe citato in alcune sequenze, il film non ha bisogno né di 3D né di occhialini, imponendosi prepotente per la sua novità. Un’unica, ma significativa riserva, per la sceneggiatura, che in alcuni punti andava asciugata, e sul finale sfrondata dalla stratificazione di ambizioni esistenzial politico sociologiche che complicano inutilmente il film, facendogli anche perdere qualche cosa in termini di tenerezza, o di sommovimento dei sentimenti. Ma i primi venti minuti,come per Wall-e (2008) si iscrivono nella storia del grande cinema, essendo peraltro anche il seguito di gran lunga superiore in termini di singolarità e di pregnanza. Così che anche lo spettatore, a suo modo, trova difficoltà ad uscire da questa irresistibile storia per adulti immaginosi.
RANGO di Gore Verbinsky, Usa 2011, durata 107 minuti