QUINTO BOUQUET
LE INCANTATRICI , di Pierre Boileau e Thomas Narcejac , Adelphi 2015 , 198 pagine , 15,30 euro
Amiamo Thomas Narcejac ( pseudonimo di Pierre Ayraud ,1908 – 1998 ) per i suoi preziosi studi critici sul romanzo giallo , in particolare Estetica del romanzo poliziesco , e per alcuni testi composti con l’inseparabile sodale Pierre Boileau , tra cui La donna che visse due volte e I diabolici , entrambi poi adattati per il grande schermo rispettivamente da Hitchcock e da Clouzot , dimenticando l’ignobile remake con Sharon Stone e Isabelle Adjani . E lo amiamo per la sua finissima competenza , la cartesiana capacità di illuminare la storia di un genere e le caratteristiche dei grandi autori , nonchè per l’invidiabile sicurezza con cui ne rilancia i temi facendoli inconfondibilmente propri , restituendo al lettore un diletto intelligente di notevole suggestione narrativa . Antesignano di un fenomeno oggi diffusissimo come l’ interscambio spesso programmatico fra libri e sceneggiature , Narcejac è innanzitutto un autore indipendente che intrattiene il pubblico senza sforzarsi di scrivere per l’industria dello spettacolo . Nel senso che è stato il cinema a riconoscere le sue qualità naturali di invenzione, di strutturazione , di tempi e di forme , convertendole senza sforzo ai propri mezzi espressivi .
Adelphi pubblica dunque meritoriamente questo titolo , mettendo anche il lettore italiano nelle condizioni di confrontarsi con un talento poco noto , sperando che le traduzioni , finora quasi mai tentate , possano continuare , visto che il repertorio firmato a due o a quattro mani conta un centinaio di romanzi , racconti , testi per l’infanzia e saggi . Ne Le incantatrici il delitto è un pretesto , perchè non è l’intrigo in quanto tale a movimentare le pagine , bensì un’ossessione esistenziale che si chiude su se stessa come un cappio mortifero , lungo l’avvicendarsi di dualità e di rifrazioni sia effettive che metaforiche . L’ambientazione affascinante e inconsueta è quella dell’illusionismo e della prestidigitazione , quindi di una realtà mistificata e mistificante che vede il protagonista affermarsi e annullarsi progressivamente , così come un pubblico incantato non riesce a distinguere tra realtà e finzione . Il trucco c’è , sul palcoscenico e nella vita , mentre il libro è dedicato alla fatalità femminile e alla deriva di un personaggio votato al successo , anche nello scacco . Circolano tortore identiche e ragazze gemelle , stati d’animo a sorpresa come fiori in un cappello , specchi claustrofobici e notti stellate , amori ambigui moltiplicati e divisi , denari che si accumulano e che sfuggono . Il bellissimo ritratto di una matriarca predatrice sembra fondersi con le analoghe invenzioni di Simenon ( autore cui Narcejac ha dedicato un saggio importante ) tuttavia le atmosfere , seppur mirabilmente circostanziate sia a teatro che nel quotidiano , sembrano risalire anche agli psicanalismi spiazzanti di Girotondo e Doppio sogno di Schnitzler . Con un ulteriore paradosso tra realtà e finzione , parola e immagine : difficilmente il cinema potrebbe consegnarci con altrettanta vivida perizia tecnica e poetica il tangibile influenzamento degli straordinari spettacoli descritti , che sono al tempo stesso sia gli incisi che il motore del romanzo . Lo stile veloce , sfaccettato e riflesso si mimetizza con sapienza in favore del gusto di raccontare per il piacere di un pubblico non ingenuo , che ama i rimandi e gli intrecci tra vita , letteratura , pittura e spettacolo , secondo un mestiere ispirato e sottile come un artigianato nobile in via di estinzione . Che dubitiamo circoli fra le scuole di scrittura , nonostante l’esemplarità degli spunti . Ma un certo novecento e un certo classicismo sembrano cose vecchie , da lasciarsi alle spalle , forti del fatto che li si ignora .
CICATRICI di José Juan Saer , La nuova frontiera 2012 , 300 pagine , 17,50 euro
Un giovane cronista oscuramente attratto dalla madre , che distilla bollettini metereologici sempre uguali : “le previsioni del tempo rimangono invariate”. Un ex avvocato posseduto da quello che una volta si definiva romanticamente il demone del gioco e che oggi si chiama clinicamente ludopatia , termine che avrebbe scoraggiato persino Dostoevskij . Un giudice a fine carriera , perso in strade notturne popolate da gorilla , mentre la sua traduzione metodica del Dorian Gray sembra una settimana enigmistica per ammansire il tempo tra un vuoto e l’altro . Un giornalista indefinibile , che compare e scompare come un commesso viaggiatore , quasi a mettere il piede nella porta di futuri romanzi ; intanto parla poco , ascolta ancora meno , ma mangia e scopa , tra “una frase e un rigo appena”*. Infine l’assassino che li collega tutti , ma in termini asimmetrici , perchè l’unica sequenzialità è quella interiore delle ossessioni personali , mentre le donne , motori lontani ridotte a comparse , rimangono sullo sfondo : ancillari , quiete , in fuga , ribelli , eliminate .
Uomini dunque , caratterizzati da una monodimensionalità iterativa come un vizio , che riassume in sè il male oscuro di un’atarassia senza risposte . Così come la scrittura di questo singolarissimo autore , assillata e assillante nei più minuti e ripetitivi dettagli , quasi a voler riempire dall’esterno una realtà priva di qualsiasi nucleo significante , oppure – etimologicamente – addensarla intorno ad antiche cicatrici per saldare un tessuto connettivo che viceversa rimane imperscrutabilmente offeso . Le partite a carte e a dadi sono filmati interminabili , così come la toponomastica labirintica di una città argentina deprivata di qualsiasi lusinga esotica : il tempo è sempre buio , umido , freddo e la parola che ricorre fino al fastidio è pioviggine , ossia la negazione di qualsiasi alternanza stagionale e di ogni mutamento esistenziale . Eppure il libro sprigiona il potere ipnotico di un dolore attonito e senza scelta che , avvolgendo il lettore in spire di malinconia sempre più strette , diventa carne infetta nonostante la godibilità di umorismi lapidari . L’effetto probabilmente è dovuto ad una particolare maestria allucinatoria , che si avvale di un linguaggio invasivo al rallentatore e , soprattutto , di tagli prospettici e di geometrie a scacchiera che imprimono alla struttura una alterazione simile a quella esercitata da Céline sulla parola . I fatti , raggrumati intorno ad un delitto , sembrano non esistere e nel contempo assumono singole evidenze specifiche in funzione dei diversi punti di vista di personaggi contraddittoriamente concentrati solo sulla disperata ripetizione di se stessi , fino al suicidio effettivo o metaforico . E che tuttavia aggiungono ad un’evidenza frantumata il loro apporto di formiche , in un mondo chiuso e incongruente che sembra svelare ciò che di fatto affonda deliberatamente nel mistero . L’eccesso di dicibilità diventa così paradossalmente ineffabile e bisogna essere molto bravi per rendere perfettamente coerente e conchiusa una sfida quasi impossibile , intessuta di luoghi comuni attesi ( il folklore latino , il giallo di genere , il realismo magico sudamericano) matematicamente ribaltati nella loro assoluta negazione . Sullo sfondo , una conoscenza letteraria sapiente e meditata , e poi buttata all’aria in favore di prolungate , impassibili prosaicità che alludono sempre ad altro . Chiunque legga Saer per la prima volta non può che rimanere affascinato da un autore di origini siriano – argentine e di frequentazioni parigine , isolato per scelta , vocazionalmente estremo , e lontano o comunque progressivamente incurante delle malie ricattatorie di Borges .
*Citazione del titolo italiano di Boquitas pintadas di Manuel Puig
BUTTERCUPS ( particolare ) Lucian Freud , 1968 : un tema rarissimo nella produzione del pittore