QUARTO BOUQUET
IL CLAN DEI MAHE’ di Georges Simenon , Adelphi 2006 , 149 pagine , 15 euro
Le vite ordinate sembrano spesso tali perchè pre-ordinate e fondano la loro ragione di continuità o su un’adesione quasi voluttuosa alla ripetizione o sulla mancanza di casuali interventi esterni . Il dottor Mahè è stimato come medico dalla cerchia dei suoi compaesani , la madre lo compiace in tutto e per tutto , la vita domestica con la moglie e con i figli non conosce alterazioni , l’amicizia di un collega adempie alle sue esigenze sociali , la casa si erge solida e rassicurante a proteggerlo , così come tutti i Mahé con lui imparentati in un villaggio della Vandea . All’improvviso , una vacanza intesa come temporanea assenza dai propri luoghi diventa un lento processo di allontanamento da quell’io che il protagonista comincia a dubitare di essersi deliberatamente scelto . E il lento collassare della persona , della maschera che il dottore ritiene di essere stato , si rifrange nell’assolato clima di Porquerolles , dove gli odori , le luci , i sapori sembrano l’esatto opposto degli austeri e solidi grigi domestici . Poi un episodio specifico , anch’esso una macchia di caldo e di colore , irrompe in un equilibrio precario , decidendo dell’avvenire . Ma solo dopo cinque anni e in seguito alla morte della madre , la traiettoria , dapprima intuita quasi solo fisicamente , si potrà compiere . E non senza un oscuro passaggio di dilazione e di vergogna . Romanzo di grande attrattiva che coniuga la capacità di suspence del giallista di razza con una letterarietà alta di matrice dostoievskiana , riesce a fondere pensieri , fatti e atmosfere impastandoli con tutti i topoi canonici dell’isola , del sole , del mare , trasformando la possibile cartolina in una mappa interiore , dove i percorsi sembrano confondersi fino all’ultimo tra i pieni e i vuoti dell’esistere . Senza che nè il lettore nè il protagonista ne abbiano tecnicamente coscienza , insinua diagonalmente , come uno spiffero di luce da una persiana , temi esistenziali senza risposta : diventiamo quello che siamo o siamo quello che diventeremo ? La vittima e il carnefice sono complementari e opposti , così come il caso e il libero arbitrio ? I sentimenti sono delle idee o viceversa ?
I SETTE PAZZI di Roberto Artl , SUR 2012 , 329 pagine , 15 euro
Si potrebbe appiccicare a questo libro la formula dell’allucinazione sulfurea e passare oltre senza aver detto niente . Invece questa è una lettura difficile , sconcertante eppure ipnotica come un baratro , che ad ogni pagina dilania il lettore tra il desiderio di continuare e l’abbandono per sazietà . Tratta di molti tipi di masochistica e truffaldina pazzia , dalle farneticazioni lucide su un nuovo ordine mondiale ( finanziato da una catena di bordelli ) al tema del delitto ( e castigo ) per noia nihilistica e dolente disgusto di se stessi . L’atto trasgressivo , soprattutto se estremo , sembra ormai l’unico mezzo per accantonare l’insignificanza , dando all’esistenza una svolta avventurosa in cui finalmente si può provare ad essere vivi , al di là del bene e del male . La trama è beffarda , la strutturazione frammentata con inquietante efficacia , il gruppo di personaggi si apparenta ad una teatrale compagnia di guitti , il popolo a una massa informe storicamente simile all’attuale . Mentre lo svolgimento rincorre i realismi più spietati e si coniuga nel contempo con gli assurdi di un’insolazione alla Camus , secondo uno scambio continuo di parossismi logici e incubi viscerali , sangue buio ed escrementi al neon . L’assenza di senso di una presunta normalità rimane il vero , imperturbabile , fatalistico agguato da sventare con ogni mezzo , sostenuto da una ricchezza affabulatoria quasi narcisistica , tale da forzare all’estremo il funambolismo espressivo della lingua . Scrittore dagli anni brevi ( Buenos Aires – 1900 / 1942 ) Roberto Arlt non sfigura accanto a Borges e Bioy Casares , e chi ritiene di conoscere i classici o di frequentare i grandi autori del novecento latino-americano non può accantonarlo , anche a costo di beccarsi una singolare , disperatissima specie di scabbia , agitata da incubi sonnambulistici come da pruriti ironici .
RISPOSTE NELLA POLVERE , di Rosamond Lehmann , Einaudi 2014 , 437 pagine , 19 euro
Nei romanzi di Delly , di Liala , di Rosamond du Jardin ( e in parte anche di Sveva Casati Modignani , mentre nulla so di Barbara Cartland e poco voglio sapere di Susanna Tamaro ) la frequente asimmetria del classico triangolo amoroso e le oppositive differenze sociali mutuate da Cenerentola erano infallibilmente rispecchiate dagli schemi somatici dei protagonisti : chi era bruno / a aveva gli occhi azzurri o verdi e chi era biondo / a li aveva color carbone . Altre varianti non erano concesse perchè il mal pelo tizianesco veniva contemplato solo tramite comparsate di perfida doppiezza o goffaggini da asfissia ascellare . Faceva seguito un universo di titoli nobiliari , di divise avventurose , di sartine familiarmente orfane o troppo accompagnate , che arrossiva , impallidiva , sperava . La vera molla passionale poggiava sul pensiero desiderante e sull’attesa , si giungesse o meno alla prova d’amore (alias peccato della carne ,”e la sventurata rispose”) . Invece , a cavallo fra la fine dell’ottocento e il novecento fiorisce , prevalentemente in ambito anglofono , un nuovo tipo di donna emancipata nonchè scrivente , che tratta gli stessi schemi con diversa sapienza e ben altre ambizioni . A questo gruppo appartiene Rosamond Lehmann , coetanea e frequentatrice , seppur appartata , delle maggiori personalità del circolo di Bloomsbury , conosciuta in Italia per Tempo d’amore , pubblicato nella Medusa Mondadori – 1942 – cui fa appunto seguito l’attuale traduzione di Risposte nella polvere – 1927 –
All’epoca , la dichiarata omosessualità o bisessualità di alcuni personaggi fece scandalo , distogliendo il pubblico e la critica da una cifra autoriale che oggi emerge più chiaramente e redime gli elementi della letteratura rosa spostandoli sulla dicotomia fra mente e corpo , come se pensiero e istinto rendessero la vita affrontabile solo con la rinuncia astenica o la sfrenatezza dei sensi . E tanto più la natura accudisce l’ineffabilità dei desideri , degli affetti e delle prime solitudini , tanto più diventa spettatrice di morte .
Tuttavia il colpo di genio del libro consiste nell’aver dilatato il triangolo ad esagono , fondandolo fin dai primi anni su un perimetro elitario che corteggia l’incesto e da cui nessuno potrà mai liberarsi . La scrittura non è il maggior punto di forza del romanzo ( anche se a tratti s’avvicina all’acume introspettivo e alla vigilanza assorta di Catherine Mansfield ) e quello che allora era moderno oggi non può più apparire come tale . Eppure il trascorrere del tempo infantile , poi adolescenziale e in seguito giovanile riesce a trasmettere bene la pena esistenziale dello spreco romantico , grazie soprattutto a tre peculiarità : l’alternanza fra realtà e immaginazione , la scansione lenta e poi l’accelerazione dei tempi all’interno di spazi che sono sempre memoria e ritorno , l’attenzione fisica e fisiognomica ai contesti e alle persone , cui è prevalentemente affidata la dinamica dei fatti e dei sentimenti . Le imperfezioni sono chiare , eppure , a suo modo , il libro cattura l’attenzione e colpisce al cuore con l’insistenza pulviscolare della pioggia inglese , che è una sorta di neurotrasmettitore letterario , anche seduttivo , della malinconia di vivere .
EINE KLEINE NACHTMUSIKE – 1943 – di Dorothea Tanning