POSTI IN PIEDI IN PARADISO
“Ma che è, quel Jim Morrison dei Queen?” chiede l’inconcepibile cardiologa che usa lo stetoscopio con gli auricolari dell’iPod. A cui verrebbe da ribattere: ”Ma che è, quel Carlo Verdone di Giù al nord, o di altri improbabili commedie uscite di recente sui nostri schermi?”. Perchè, purtroppo, Posti in piedi in paradiso, ultima fatica del nostro simpatico regista, è ben lontano da Compagni di scuola (1988) o da Al lupo al lupo (1992). Ne mantiene il tono “verdoniano”, tra il bonario e l’amarognolo, con qualche disseminato guizzo satirico, ma il registro tragicomico s’incaglia nelle secche di un finale didattico-intimista, mentre la sceneggiatura claudica intorno a un déjà vu di matrice corrente o pseudotelevisiva.
Preventivamente delibato quasi in tutto e da tutti per colpa di interviste e pubblicità martellanti come quelle delle auto, dei telefonini e dei prosciutti, il racconto illustra tre vite maschili alle prese con un’età tra i quaranta e i sessanta, i pasticci erotico-sentimentali di disastri famigliari pregressi, la mancanza assillante di denaro.Tema attualissimo e dilagante, che necessiterebbe di qualche affondo in più. E che invece viene appioppato ad un ex produttore musicale in rovina, che vende dischi in vinile (Verdone), a un pluripadre da mogli diverse che arranca fra alloggi invenduti e marchette per anziane assatanate (Giallini) e un fu critico cinematografico costretto alla cronaca rosa (Favino).
Presi di mira prima da se stessi e poi anche dalla sorte, i tre (ridiventati più soli che scapoli) vanno a coabitare, con tutte le prevedibili frizioni di un concubinaggio forzato, scalcinato ed insolvente, a cui si aggiungono vaghi risvolti sentimental-carnali. Tra assegni latitanti per i figli, minacce delle ex mogli, immaturità sparse e crampi da fame che rendono la dignità un accessorio di lusso.
Fino ad una rapina annacquata, prevedibile ma divertente, presa in prestito da I soliti Ignoti di Mario Monicelli, 1958, con un debituccio, tradotto in trasteverino, nei confronti di Point Break (Katherine Bigelow, 1991). Sul quale il film sarebbe potuto terminare, se solo avesse sviluppato meglio la prima parte, con tanto di psicologia dei protagonisti e aneddotica al contorno. Invece si tira via teatralmente al chiuso, quasi in apnea, per poi prendere il largo ed espettorare sui rispettivi figli, vittime e nel contempo salvatori problematici. La parte più debole di un film già piuttosto astenico.
Che dire… Carlo Verdone è ormai uno zio di famiglia, che frequentiamo da anni, sì che il ritrovarlo fa sempre simpatia, abituati come siamo alla sua maschera di gomma, cui l’avanzare del tempo toglie in sprovvedutezza, mantenendo però inalterato un certo gradevole patetismo di fondo. A ben vedere, è tutta qui la trappola del film, che sembra confezionato come quei messaggi premurosi in cui non si ha molto da dire (o non si sa come dirlo), ma lo si dice lo stesso, in virtù della manutenzione degli affetti. Una manutenzione che già funziona meno per Favino, bravo attore ormai spalmato dappertutto come la Nutella, evidentemente a disagio nella parte. Mentre Giallini, questo sconosciuto, ha il physique du rol, ma non moltissimo di più. Anche perchè la scelta registica e fotografica sembra privilegiare la macchina da presa fissa, con enfasi sulla mimica e le movenze degli attori, a cui si dovrebbe chiedere forse qualche sforzo in più.
Sui tre, vince Micaela Ramazzotti, se ci si dovesse accontentare delle classifiche sanremesi. Mentre, sempre in base alle graduatorie, gli sceneggiatori Plastino, Albertazzi e Verdone si piazzerebbero ai terzultimi posti, incerti tra il confezionamento di mestiere, l’instant movie su un tema di attualità e lo sfruttamento di personaggi, ruoli, gag che sembrano il riepilogo dei tanti luoghi bazzicati dalla cosiddetta commedia all’italiana, fino a diventare luoghi comuni. Ogni tanto si ride, e se non ci si assopisce brutalmente è perché il tutto scorre senza rozzezze, visto che Verdone è uomo acculturato, intelligente e di buon gusto. Ma non basta.
Non siamo affezionati al personaggio del critico supercilioso, magari nostalgico dei tempi che furono e che sputacchia su tutto e su tutti, in quanto ben consci che ogni opera è comunque sempre frutto di fatiche, alimentate da speranze nobili o meno nobili. Ma, in un momento di risveglio del cinema italiano attraverso le opere di registi del calibro di Sorrentino, Garrone, eccetera, dispiace che uno dei generi d’eccellenza come la commedia risulti oggi quasi invariabilmente inferiore alle produzioni di altri paesi (si vedano i recenti Tre uomini e una pecora, e Quasi amici).
Il pubblico non mancherà di accorrere,scaldato da quel senso di intimità che la lunga frequentazione genera comunque. Ma sarebbe troppo chiedere a Verdone qualche meditazione aggiuntiva, magari rarefacendo la cadenza di un film ogni anno o due? Salvo impellenze monetarie, l’attaccamento della gente rimarrebbe immutato, e magari la qualità complessiva rifiorirebbe sulla traccia di stagioni più felici.
PS: Giocataci favinianamente la nostra non carriera di recensori, non andremo a dannarci sulla cronaca rosa. Ma così, di striscio, com’è la situazione sentimentale di Carlo, visto che si rigira una fede al dito?
POSTI IN PIEDI IN PARADISO di Carlo Verdone , Italia 2012, durata 119 minuti