Film

PERFECT DAYS

Un ancora prestante cinquanta/sessantenne si sveglia ogni mattina in una stratificata casetta giapponese ( come a dire che ogni labirinto è indipendente dalle sue dimensioni ) e onora meticolosamente sempre lo stesso rituale : ripiegamento del cuscino e del futon , sistemazione del libro e degli occhiali della sera prima , lavaggio dei denti, rasatura e spuntamento dei baffetti, irroramento di una raccolta di pianticelle domesticamente gracili, indossamento di una tuta da lavoro con tanto di scritta The Tokio Toilet , raccolta di chiavi telefono monetine e attrezzi vari , sguardo ispirato al cielo sereno o plumbeo che sia, più un ringraziamento che una preghiera. Poi , dopo un caffè al distributore da cortile, monta sul suo minivan e inizia un’acribica giornata sempre uguale, che si moltiplica all’infinito, variata solo dalle incombenze serali e settimanali .Sicchè, per circa due ore, lo spettatore abbozza, chiedendosi da un lato se ci si fa del male solo per sapere che male fa, dall’altro quando il regista si deciderà a dare un passato e una spiegazione a queste giornate seriali ma fuori dal coro, visto che il protagonista non parla, e’ un fanatico delle vecchie musicassette ( parecchio Lou Reed) e delle fotografie analogiche da stampare, che raccoglie in classificatori annuali: perloppiù cieli arabescati da cime di alberi .

Invece, a parte qualche sfocato sogno calligrafico in bianco e nero che riecheggia le fotografie , si arriva alla fine senza che Wenders abbia ceduto di un millimetro all’ormai imprescindibile tentazione di far irrompere una qualsivoglia storia . E, allora, si comincia ad ammirarlo. E ad apprezzare i piccoli interstizi fra le abitudini indefettibili: la comparsa di una giovane nipote in fuga da casa, il breve abbraccio della sorella di lui che la riporta a sé con tanto di limousine ed autista, il canto di una barista che lo vizia, l’incontro notturno con un moribondo, cui offre da bere e da fumare, giocando ad una improvvisata gara di reciproco calpestamento delle ombre. Viene alla mente una citazione da David Foster Wallace in Brevi interviste con uomini schifosi ( 1999): ”La poesia… non mi è mai piaciuta. E’ un modo di girare intorno alle cose . Anche quando mi piace, non è altro che una maniera molto obliqua di dire l’ovvio. Ma bisogna considerare che pochi , pochissimi di noi sono in grado di affrontare l’ovvio”.

Quando alla fine il film si conclude con un lunghissimo piano sequenza della faccia del protagonista ( mutuato dal Michael Clayton di Toni Gilroy-1977- dal Drive my car di Ryusuke Hamaguchi-2014- dall’ Oppenheimer di Christofer Nolan-2023- eccetera ) e quindi molto in voga per offrire un imprimatur autoriale al regista, nonché uno spessore di variazioni espressive minime ma significanti all’attore, si è costretti a riconsiderare e a ribaltare la straniante ripetitività del tutto. Quel protagonista solo e gentile, all’apparenza così lontano e alieno in quanto reso paria ed invisibile dal mestiere di scrupolosissimo pulitore di cessi, è nella sostanza infinitamente prossimo e affine a noi, illusi da un altro mondo di rumori e di specchietti, eppure suonatori delle stesse poche note, ma differenziati dallo scontento del desiderio , che quasi mai diventa potere trasformativo. Lui no, si dev’essere riscattato da un passato ignoto ed ha imparato, senza rassegnazione ma per scelta, ad appagarsi di quello che ha infine ri-costruito su di sè, perché “un’altra volta è un’altra volta” e perché “adesso è adesso.”E non lo si potrà più dimenticare.

PERFECT DAYS di Wim Wenders, Giappone Germania 2023, durata 123 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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