PARLARE DA SOLI
Come il tormentone sulla morte del romanzo, ogni tanto affiora quello sulla riconoscibilità stilistica degli artisti, che secondo alcuni dovrebbero comprimere o dilatare sempre gli stessi temi e le conseguenti modalità di esprimerli, mentre per altri è legittimo che si cambino di volta in volta soggetti, atmosfere, dettati. Gli esempi sarebbero tanti, con nomi buttati lì, da Fellini a Roth per i primi, da Picasso a Soderbergh per i secondi.
Va ad ingrossare le fila Andrés Neuman, partito con l’esordio folgorante de Il viaggiatore del secolo , grande, ambizioso e riuscitissimo rimaneggiamento della narrativa classica a cavallo tra il il millesettecento e il milleottocento; inciampato deludentemente in coincidenza con il secondo titolo- Una volta l’Argentina – denso di una scrittura autobiografica incapace di collocarsi ad una corretta distanza tra il cuore e la mente, tra la realtà storica e la torsione inventiva; a suo modo inclassificabile nel terzo, che si pone a metà strada tra un’abilissima sceneggiatura cinematografica dei giorni nostri e l’esaltazione diaristica di tematiche quali sesso, amore, morte, famiglia che tanto piacciono ad una certa tipologia di lettrici, seducibili dalla facilità di una scrittura “istantanea”, eppure di sicuro impatto intellettuale ed emotivo.
E’ probabile che la scintilla che innesca questo Parlare da soli risieda in un accenno di striscio, che in un certo senso apparenta il giovane autore al più maturo e radicalmente diverso Michel Houellebecq: Neuman ritiene che la letteratura sia stata carente e sia inadeguata a trattare il tema della malattia e gli effetti dei suoi sradicamenti, così come Houellebecq accusa il romanzo di essere incapace di esprimere l’indifferenza e il nulla, per i quali bisognerebbe trovare un’altra forma espressiva “più piatta, più concisa e più incolore” (da Estensione del dominio della lotta).
L’autore argentino in realtà non è nè piatto nè sbiadito, e forse dimentica artatamente dei grandi titoli (uno a caso, La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj) ma certamente in questa ultima prova piega il suo indubbio talento della parola e della struttura ad una rapidità quasi telegrafica: si preoccupa vistosamente di arrivare subito al lettore, articolando un fraseggio apodittico su modelli comportamentali in grado di attingere all’esperienza di ognuno, per assurgere nel contempo ad aforismi da livre de chevet. Ed avvalora quest’aspetto facendo della protagonista femminile un’insegnante, che ha l’abitudine di estrapolare brani significativi di grandi autori classici e moderni, altrimenti la fruibilità e la matrice “alta”sarebbero meno facilmente conciliabili .
Benchè tragico, in quanto evidenzia il complesso solco offensivo e difensivo fra vivi e morenti, non è certamente un libro tetro e noioso, semmai è di una vivacità quasi compiacente, in bilico tra l’autosfida ad una autorialità troppo complessa e altezzosa per la modernità (quale quella dispiegata ne Il viaggiatore del secolo) e la tentazione di attingere ai grandi numeri per motivi che possono trascorrere da impellenze specifiche all’esigenza di una riconoscibilità più diffusa.
Minuettato a tre voci, quella del padre ammalato, della moglie e del figlio decenne a cui sono intitolati i capitoli alterni, il romanzo cerca di presentare i differenti punti di vista sul medesimo problema, mentre il triangolo del nucleo famigliare muta perimetro, diventando un quadrilatero da tradimento per “necessità vitale”, per poi sfumare in figure geometriche meno precise, che di volta in volta contemplano complicità binarie ed esclusive tra padre e figlio, madre e figlio, medico e paziente, medico e amante . . . in una rapsodia di rifrazioni e sdoppiamenti resi nel contempo pietosi e crudeli, innocenti e colpevoli.
Nel continuo trascorrere tra aperture e chiusure, le tre voci monologanti dei protagonisti sono differenziate dalla prospettiva personale con cui guardano ai fatti e ai ricordi, anche se la matrice espressiva appare come un’ingegnosa modernizzazione dello stream of counsciousness facilmente riconducibile alla sola sensibilità dell’autore. La durata letteraria del pensiero è l’esatto opposto del pensiero stesso, che in natura vaga in modo veloce e dispersivo, mentre qui il tempo assume la funzionalità precisa di un manuale per utenti, e parimenti è inversamente proporzionale alla ambigua lentezza con cui trascorre per il condannato a morte , velocissimo nei mesi e disperatamente amorfo nei minuti. E viceversa per la moglie, mentre il bambino rimane nel presente dell’infanzia.
La riconoscibilità dell’estro (inteso in astratto come capacità di articolare e sostanziare la parola secondo angolature inventive inusuali) è indubbia, mentre del primo Neumann, in concreto, rimane l’abilità in ambito erotico, capace di colpire per invenzioni e omissioni, lanciando la pietra e nascondendo la mano. Un libro che vale la pena di leggere per due motivi: è un intrattenimento intenso sia nel soggetto come nell’espressione, ma è fruibile in qualsiasi circostanza, dalla metropolitana allo studio dentistico; offre motivi di riflessione sui giovani abitati dal genio o comunque da un demone, il cui futuro ci sta molto a cuore – anche se sempre meno facilmente la sola bellezza ci salverà.
Viviamo in tempi in cui forse nessun artista spenderebbe cinque anni per affrescare la cappella Sistina. La trascendenza del futuro, proprio perchè soltanto laica, non interessa più a nessuno. Il qui e ora stempera lo stereotipo della letteratura come vocazione (“Una vocazione è una missione permanente, un modo raffinato per non affrontare l’ignoto”) oppure come ossessione, diuturno esercizio, dubbio basculante. Le abilità scommettono sull’oggi, e le potenzialità forse si annacquano nell’urgenza dell’immediatezza. In altre parole, se questo fosse il primo libro di Andrès Neuman lo si potrebbe apprezzare anche di più. Ma il passato obbliga al confronto, smorza gli entusiasmi della scoperta, avvalora il sospetto dell’arte come mercato e dell’artista come funzionario, coerentemente con il rapporto consumistico fra produttori e clienti. Probabilmente qualche cosa o anche molto si perde ma, se non se ne ha coscienza, non c’è rimpianto.
PARLARE DA SOLI di Andrès Neumann, Ponte alle Grazie 2013, 197 pagine, 14,80 euro
LA CITAZIONE
“Se la scrittura ci permette di parlare da soli, leggere e tradurre è come conversare”.