OH!CAROL
Oh! Carol , gorgheggiava Neil Sedaka , con la sua vocetta metallica vagamente eunocoide . Era il 1959 , il cantante usciva da due precedenti insuccessi , stava per perdere il contratto con la RCA , urgeva una canzone che venisse incontro ai gusti semplici e ritmati del pubblico , e le parole banali seguirono lo stesso criterio di marketing , scalando i vertici delle classifiche . La seconda guerra mondiale alle spalle , l’ America inaugurava quella fredda insieme al dirompente affermarsi del consumismo , e la popolazione inseguiva ogni forma di divertimento facile e senza pensieri , forse inconsciamente presaga di un Vietnam già in agguato .
Oh ! Carol torna dunque alla mente non solo per l’ omonimia con l’ultimo film di Todd Haynes , ma perchè l’epoca dell’ambientazione è più o meno la stessa , i dialoghi ricalcano il medesimo schematismo , la colonna sonora risulta di una melensaggine altrettanto imbarazzante . Ma , soprattutto , anche questo ultimo film lascia il sospetto di un’analoga operazione di cassetta , studiata a tavolino , per fare ancora una volta artatamente breccia presso il largo pubblico , che infatti sembra gradire moltissimo , riempiendo le sale e omaggiando la pellicola di prestigiosi premi .
Dichiaratamente omosessuale , sensibile alle cause delle minoranze anche in materia di religione e di razza , il regista riprende infatti quasi specularmente i temi del suo precedente Lontano da paradiso ( uscito nel 2002 , ma ambientato nel 1957 ) e li retrocede di pochi anni . Siamo nel 1952 , e la superficie immobile del nuovo benessere americano nasconde lo stesso feroce ed intollerante puritanesimo . A farne allora le spese Julianne Moore , smarrita borghese con un marito che va a uomini e che , in nome delle regole codificate , la condanna per la sua relazione con il giardiniere negro ; adesso la coppia femminile formata da Cate Blanchett e Roony Mara , anch’essa sbilanciata socialmente nonchè costretta , combattuta e accomunata da uno sfondo affine di belle case , amici collettivamente irreprensibili , maternità problematizzate dalla contravvenzione della morale corrente .
Certo è possibile che la memoria lusinghi i ricordi in modo menzognero , e che la prima volta colpisca più della seconda , ma Lontano dal paradiso ci era sembrato altrettanto autunnalmente elegante eppure più sicuramente ispirato ed autentico nel suscitare quei sottili disagi che , parlando di un tempo passato , si rivolgono alle coscienze attuali . Con un tocco di amarezza quasi ineluttabile che qui viceversa viene cancellato da un più consolatorio lieto fine : proibito o meno , l’amore trionfa comunque , seppur intriso di negazioni e di sfide .
I particolari curatissimi , la levigatezza delle inquadrature , i tagli temporali che avvolgono diversamente ( e ormai quasi obbligatoriamente ) la vicenda sono senza dubbio quasi tutti ben confezionati , eppure aleggia non solo un perentorio déjà vu , ma anche un gusto ormai così spesso assaporato da sfiorare la stucchevole ripetitività della maniera . E a poco vale la citazione colta ( anch’essa ormai quasi obbligata ) da Viale del tramonto per conferire autorevolezza ad una autorialità un po’ stanca e compiacente . Permangono troppe lentezze , la storia decolla solo a tratti , i caratteri vagano dal troppo esplicitamente recitato e predatorio della Blanchett al fermo mistero giovane della più contenuta e accattivante Mara , mentre una frase buttata lì fra le tante sembra voler schiudere il senso nascosto dietro alle immagini : “le parole rappresentano solo l’accompagnamento esplicito di quanto dovrebbe affiorare soprattutto tramite la mimica dei gesti e la dinamica degli animi” . Sarà , ma se i dialoghi latitano , anche le psicologie individuali s’imboscano , sicchè poche sono le novità accattivanti del film : lo spiazzamento degli uomini che ronzano intorno a donne rapite altrove e a loro indifferenti , la finale rinuncia alla rinuncia delle due amanti , dettata dalla passione , ma stimolata dalla solitudine dell’esclusione sociale .
Tutto è ineccepibile e discutibile , lustrato , atonale eppure talvolta sopra le righe , sì che gli struggimenti auspicati non vanno a segno in profondità . Rimane un esercizio di stile un po’ invecchiato , che tuttavia blandisce le aspettative estetiche degli spettatori , forse ancora affascinati dal tema consunto della diversità in salsa sociale medio alta , che offre gratis una patente di correttezza politica o di disinvolta accettazione , senza turbamenti soverchi : si veda l’unico amplesso talmente seppiato ed indistinto da costeggiare la metafora passionale delle fiamme nei caminetti , in auge a Hollywood lungo tutti gli autentici anni cinquanta . Troppi gli ingredienti , seppur sapidamente impiattati , che risultano talmente frutto di citazioni delle citazioni da lusingare ogni palato perchè ormai definitivamente legittimati e quindi immediatamente riconoscibili . Poca la commozione e l’empatia , grande la fruibilità , con il buon peso del blasone firmato . Forse è una pretesa superata , ma se il nuovo sembra ormai sempre meno perseguibile , i film pluripremiati dovrebbero , se non sorprendere , offrire almeno qualche spunto diverso da una sorta di metafisico remake dei remake , puntuale o di genere .
CAROL di Todd Haynes , Gran Bretagna USA 2015 , durata 118 minuti