NEMESI
Newark, New Jersey. Estate 1944. Franklin Delano Roosvelt, imbracato nei suoi pesanti tutori ortopedici di poliomielitico, sta per terminare il suo terzo mandato, in vista della quarta rielezione a presidente degli Stati Uniti. Tutti i giovani abili sono lontani da casa, arruolati per combattere nel secondo conflitto mondiale. Tutti, tranne Mr.Cantor, che avrebbe tanto voluto, atletico e generoso e doverista com’è. Ma una forte miopia l’ha confinato al compito domestico di istruttore di educazione fisica in un parco giochi. E, nonostante sia l’idolo dei ragazzini, non riesce a superare la vergogna di non essere altrove, come i suoi coetanei. Intorno, una comunità ebraica che intende la religione come un dovere, mentre il nonno, al contrario, l’ha educato a intendere il dovere come una religione. E poi il caldo, il duplice bollettino di guerra dei combattimenti lontani e dei morti per polio, che trasforma una pacifica comunità in un ansioso lazzaretto assediato dal virus, dai dubbi senza risposta, dai sospetti e dalle sirene delle ambulanze. Solo i ragazzi , pur essendo il bersaglio privilegiato dalla malattia, continuano a considerare l’estate come un’avventura spensierata; ma quando Mr Cantor, al secondo funerale di un altro suo allievo, realizza che quel corpo di dodicenne nella bara rimarrà un dodicenne per sempre, comincia non a dubitare di Dio, ma ad accusarlo di permettere, anzi di creare il male. Finchè una sera, mangiando una pesca che sembra riassumere in sè tutte le promesse di quieta felicità cui aspira, tradisce se stesso, si fidanza con Marcia e lascia la città per un incontaminato campeggio giovanile sulle Pocono Mountains. Comincia così, da un legittimo impeto di sentimento non ragionato, la nemesi del titolo, perchè Mr.Cantor – Bucky – non dispone più di una coscienza con cui poter vivere.
Analisi di un’infanzia orfana che si fa giovinezza interrogante, il libro è una lunga, dolente, ingenua inquisizione sul male e sulla sua insensata gratuità distributiva. Condotta, a differenza de La Peste di Camus o di Cecità di Saramago, senza sottigliezze concettuali, senza il dubbio di uno svuotamento di senso esistenziale, ma con la freschezza di occhi ribelli che non ne concepiscono l’assurdo filosofico, bensì solo la forsennata contrapposizione ad una ben radicata coscienza della felicità di stare al mondo. Perchè il suo muscoloso corpo di atleta brevilineo, di giovane innamorato, di affettuoso nipote e di premuroso insegnante conosce a fondo le lusinghe di un ragionevole quanto rassicurante futuro. E non può essere sfiorato dal pensiero della tirannia e della contingenza del caso, bensì ha bisogno di un nemico contro cui combattere e perdersi. Il suo carattere generoso è straziato dal pensiero di quanto tutto potrebbe essere diverso e, traendo un estremo conforto dal castigo, trasforma la tragedia del mondo in colpa personale. Con la stoica pretesa di saper fare a meno di quello che non ha e salvare il suo onore negandosi tutto quello che ha sempre desiderato. Etichettando Dio – della cui esistenza non dubita – come “uno stronzo depravato e un genio del male”.
Ancora una volta Philip Roth, dopo gli ultimi libri sulla vecchiaia e sulla morte (L’animale morente, Everyman, Il fantasma esce di scena, L’umiliazione )torna alla giovinezza. E lo fa con la stessa incantevole bravura che gli ha dettato il recente Indignazione, anche se in questo caso più costretto nel racconto dallo svolgimento della consequenzialità contenuta nel titolo stesso.
Ma come si esprime questo autore, da anni scioccamente defraudato del premio Nobel, riuscendo ogni volta a creare libri che entrano di prepotenza nella storia della letteratura?
Innanzitutto ricreando un contesto fisico, sia umano che geografico, di precisione cartografica ed entomologica, senza mai disperdersi nella pedanteria dei dettagli, bensì estrapolando solo quelli in grado di colpire al cuore:le strade che evaporano al calore, le mosche dei negozietti, il suono lontano delle sirene, l’acciottolio delle stoviglie nella sera, l’incanto senza nome di un’estate montana; oppure i segni del lutto in un paio di occhiaie, come la commovente serietà dei giochi adolescenti in una Notte indiana.
Poi, inscenando dei personaggi mai esemplari, bensì originalmente umani e riconoscibili, con una partecipazione giudicante ma al tempo stesso affettuosamente empatica, molto simile a quella utilizzata da Saul Bellow nell’animare i suoi. Facendoli vivere in azioni , pensieri e dialoghi secondo un impasto corporale e spirituale che elimina radicalmente qualsivoglia programmaticità dimostrativa. Sempre documentandosi e facendo propri non solo i ricordi e le esperienze personali, bensì la malattia della polio, piuttosto che l’addestramento sportivo o ludico di un’epoca precisa. Infine , conferendo al tutto una intelligenza speculativa – anche umoristica ed ironica – ed una pietà umana frutto dell’incrocio esemplare fra una cultura alta di matrice mitteleuropea coniugata al pragmatismo americano e alle radici della tradizione sapienziale ebraica. Da ultimo , con l’indefinibile grazia di un talento assoluto oltre che felicemente prolifico, davanti al quale ogni esegesi critica è misera cosa, impotente a rendere un’arte che si può apprezzare solo leggendo.
Il libro si chiude su se stesso, con Bucky che si cimenta nel lancio del giavellotto, emettendo il nudo grido di battaglia dell’eccellenza nella contesa.E rimane per sempre anche grazie alla canzone che fa da colonna sonora a quell’estate del 1944, ballata una prima volta, per cominciare a mancarsi prima ancora di essersi lasciati. E poi ascoltata da lontano, frammentata dalla sera e dal lago, in quei rari momenti sospesi di sintonia con la vita, quando passato e futuro si elidono nella promessa pulsante del presente, per dare un senso ai giorni che verranno, o dannarli per sempre: “I’ll be seeing you…
NEMESI di Philip Roth , Einaudi 2011, 183 pagine, 19 euro