Film

MOLIERE IN BICICLETTA

Ci sono amicizie o sodalizi ambigui che sono come la ribollita o il cacciucco: passano gli anni e, al di là dei tempi della digestione, mantengono un retrogusto di cavolo nero o la minaccia di una sempre possibile lisca… dunque, mettetevi comodi, anzi comodissimi, e preparatevi ad assaggiare lo strano binomio di due attori che si sono conosciuti e frequentati in altre epoche. Uno (Lambert Wilson) ancora fatuamente piacente, conto in banca rimpinguato da serie televisive mediocri, con ambizioni di riscatto; l’altro (Fabrice Luchini) più povero ma più blasonato, ritirato ormai da tre anni nell’anonimato della casa di un fu zio. Entrambi tentati dalla riedizione de Il misantropo di Molière, entrambi affascinati dalle prove in solitario del primo atto, entrambi con i reciproci meschini rigurgiti di confronti, invidie, sopraffazioni, egocentrismi maturati nel corso di una lunga carriera parallela, con esiti materiali ed esistenziali diversi.

Si diceva di prendervela comoda perché, se la vita si nutre spesso di tempi lunghi che sono l’antitesi di quelli cinematografici, anche il teatro non scherza, tanto più quando a sua volta si accoppia con individui che, mentre provano la pièce, ne subiscono i medesimi contrappunti lungo un incontro magnificamente ambientato sull’isola di Ré, di fronte a La Rochelle, in cui sabbie e canali si confondono, per lambire con le acque dell’Atlantico le ruote di vecchie biciclette senza freni, mentre il cupo blu lavanda di interni molto vissuti anticipa, con buon gusto autentico, i fasti e i nefasti dello stile shabby chic.

Così, mentre Gauthier Valence insiste per allestire il progetto e Serge Tanneur nicchia, fa le fusa, vuole essere più pregato che persuaso e intanto inganna la solitudine dei suoi giorni inerti, vanno in scena quasi ossessivamente i versi alessandrini che vedono contrapposti Alceste e Filinto, a interpreti alternati, per una salomonica decisione dei due, desiderosi di compiacersi e al tempo stesso di sfidarsi, a tacitare per sempre, con un risultato definitivo, i rigurgiti delle antiche sorti a suo tempo condivise. In apparenza, il confronto si svolge sul piano eminentemente tecnico della recitazione, con risvolti anche esilaranti; ma, sotto sotto, si celano inimicizie e rancori di ben più perfida portata…

Ora, nonostante il reverenziale timore suscitato dal nome stesso di Molière, che cosa funziona o non funziona in un film fortemente voluto dall’accoppiata cinematografica Luchini-Le Guay (Il costo della vita, Le donne del sesto piano)? Innanzitutto proprio la scelta de Il misantropo, commedia cupa che cerca di alternare comicità e verità, ma in modo diverso rispetto alle altre opere: intanto perché l’autore sembra adombrare in nuce l’antitesi poi sviluppata da Rousseau tra uomo sociale e uomo naturale, contrapponendo la verità rigida ma elevata di Alceste alla fatua mediocrità degli altri personaggi al contorno, inclusa la Célimène di cui Alceste è sprovvedutamente innamorato; poi perché il contrappunto della traccia suggerita in filigrana da Molière deve trovare degli agganci simmetrici nel racconto inventato dal regista e dal suo attore-feticcio. Ed ecco gli sviluppi che avvolgono le prove, decisamente meno convincenti delle rispettive notazioni tecniche sul modo di recitare: il tormentone della riconoscibilità di Valence in quanto mesciato neurochirurgo che opera comunque e sempre per l’emozione ospedaliera dei telespettatori; gli scontri con il taxista, l’andirivieni dell’agente immobiliare, l’italiana un po’ raffazzonata di Maya Sansa, con aperture morettiane su Il mondo di Jimmy Fontana; la candida pornostar di provincia, le gag al contorno (alcune saporite, altre stiracchiate) e, soprattutto, l’alterno percorso degli stati d’animo dei due amici-rivali, ognuno con il suo bagaglio di finzioni, malignità, malintesi, segreti. Fino alla conclusione in cui perdono tutti, perché la tournée non si farà, secondo un senso dell’esistenza che fa giustizia dei supposti vincenti come dei ritenuti perdenti. Ma in base all’antico metro di Molière, e non grazie al linguaggio e ai paradigmi delle mistificazioni morali e televisive dei giorni nostri, antitesi adombrata, ma non sviluppata sino in fondo.

L’ambizione è dunque molto elevata rispetto allo svolgimento; le vicende si appoggiano ad un senso del carino-raffinato-con brio tipicamente francese, che non contempla la superficialità, ma il levigato-arioso; l’innesto con Molière non funziona troppo né per lo spettatore colto né per quello barbaro, così come la commistione fra teatro e cinema, con lunghezze insistite, se non inutili, che non aggiungono né profondità né leggerezza, spesso rendendo goffe le entrate e le uscite dalle scene “recitate” a quelle del contesto “reale”. Bisognava essere o più ribaldi nella comicità e nei tempi, o più decisamente sboccati, sulfurei, visionari. Qui siamo invece in una gradevole Colazione sull’erba, con qualche formica sulla tovaglia e qualche portata di troppo o di troppo poco, ma con una bella ambientazione di colori suggestivi e intonati, una recitazione appropriata e molte, molte buone, intelligenti intenzioni: alcune azzeccate, altre perse per strada, altre ancora indebolite da un copione a sua volta innamorato di se stesso e della sua idea di fondo, che tuttavia spesso si smarrisce tra pensosità disomogenee e soluzioni un po’ scolasticamente d’accatto, mentre viceversa necessitava di un perfetto, rodatissimo e inesorabile meccanismo a orologeria.

MOLIERE IN BICICLETTA di philippe Le Guay , Francia 2013,104 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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