MIDNIGHT IN PARIS
Sostiene Cacciari, ci sembra citando Hegel, che il bello del passato è che è passato (professore, adoperi la matita blu se stiamo dicendo una fesseria). Mentre Woody Allen sostiene l’esatto contrario, secondo il rigurgito adolescenzial-nostalgico di un’età anagrafica ancora nutrita di solide reminiscenze classiche.
Il film si apre con tre minuti di una Parigi ancora più accattivante delle più belle cartoline, con punti di vista e rendez vous atmosferici che un turista nemmeno si sogna dopo anni di appostamenti, ed un autoctono che vi abita non vede, se non nei rari momenti di intermittenze del cuore. Un paesaggio che fa sospirare allo spettatore ”ah, Parigi!” in base ad un singulto che vorrebbe dire tanto ma che, essendo una tautologia dimezzata, non dice di fatto quasi niente, un po’ come l’opera in questione.
Così, al suono accattivante di Let’s do it di Cole Porter (1929), viene messa in pista una coppia americana (lui uno sceneggiatore con un romanzo nel cassetto, lei un’arpia fedifraga dalle curve giuste) con tanto di genitori abbienti e paganti al seguito. Inutile sottolineare che mentre la bionda dice – e fa – bianco, lui pensa – e non fa – nero. Poi, una sera, durante una passeggiata finalmente solitaria per non continuare a boccheggiare, viene trasportato di colpo nei suoi amati anni ’20, naturalmente, come in tutte le favole, proprio allo scoccare della mezzanotte, momento topico ogni volta sospeso fra ieri e domani. Quindi via alla passerella di Zelda e Francis Scott Fitzgerald, Jean Cocteau, Joséphine Baker, Alice Toklas e Gertrude Stein, Picasso, Dalì, Hemingway…: figuranti improbabili fatti rivivere con la stessa disinvoltura usata da Dumas padre nei suoi romanzi storici, seppur con semplicismi filologici indegni di qualsiasi riassunto del Bignami. Ma non importa, visto che basta l’elenco dei famosi a riempire il rimpianto di anni che rimarranno carnalmente sconosciuti, e per ciò stesso retrospettivamente desiderabili.
Sinché una sera il comparativamente aitante protagonista Owen Wilson (che parla e gesticola come una sorta di contraffazione del Woody Allen attore) incontra Adriana, amante dei suddetti noti, con il faccino seducente di Marion Cotillard e la stessa propensione a mitizzare i periodi che furono. Di conseguenza, ecco servito un ulteriore approdo agli anni della Belle époque, età questa volta vagheggiata da lei: e quindi via di nuovo alla sfilata di Toulouse Lautrec, Degas, Matisse, T.S. Elliott… mentre la colonna sonora si sfrena con Offenbach (Can can music e Barcarola, i due estremi rappresentativi del periodo). Per scoprire che i cotali personaggi favoleggiano a loro volta del Rinascimento… Essendo prevedibile, non diciamo come va a finire (anche perché la storiellina che si avvolge intorno alla mancanza dei padri e delle loro nimbiche atmosfere è un mero pretesto del sentire mitologico).
Ci sono prolificità prodigiose che alternano momenti felici ad altri di pura incontinenza. Comunque, sulla quantità, ognuna di esse gode del favore della statistica: nel senso che si può sbagliare – o “scarsamente significare” – molto ma, per le stesse ragioni stocastiche, ogni tanto fare centro. Per noi, l’ultimo Woody Allen amato si è fermato a Match point (2005) per riprendersi appena appena con quest’ultima produzione annuale, che gode di un’intuizione banalmente felice e applicabile a qualsiasi generazione, da cui il prevedibile successo.
Naturalmente, siamo di fronte ad un mestiere registico così sperimentato da oliare comunque anche il più comune degli ingranaggi: la disinvoltura della struttura a canocchiale, lo scivolare dei dialoghi incorporati come caramelle nella orecchiabile colonna sonora che è parte integrante del film; l’ironia bifronte che può sempre essere invocata quando non ci si sente all’altezza, sostenendo che si stava scherzando e che non si è capito lo scherzo; qualche rarissima battuta o situazione comica (appena cinque) a rappresentare la ciliegina o l’olivetta; infine, soprattutto, la semplicità diretta della lusinga nei confronti dello spettatore, che viene di colpo trasportato in un milieu elitario, sentendosene indirettamente contagiato, poco o tanto che sappia dei periodi e dei signori in questione.
Qui però il film offre lo spunto su cosa sia o non sia la cultura “classica” per i giovani di oggi. Chi ha avuto contezza degli anni sessanta non si è accorto che fossero così “fabolous” come in seguito gli hanno comunicato, ma pensava ai maglioni neri dell’esistenzialismo, a Sartre, a Camus, a de Beauvoir, al caffé Deux magots, soltanto per rimanere a Saint Germain des Prés. In seguito qualcun altro ha cominciato a cantare “cosa resterà di questi anni ottanta…”
Ma oggi, cosa vagheggerebbe un Woody Allen trentenne? Anche il senso della nostalgia dei padri cambia, e una significativa riflessione sugli spostamenti della concezione di cultura la si può trovare nel libro Mediocrità e follia di Hans Magnus Henzensberger (1991). E già che siamo in tema di città e di colonne sonore,ci permettiamo di segnalare il più bel doppio cd su Parigi, poco conosciuto e diffuso: Paris, di Malcom MacLaren, ormai fu scopritore e manager dei Sex Pistols (1994). Suggerimenti entrambi opportunamente “datati”, per restare in sintonia con l’assunto del film: l’erba dei predecessori è sempre più verde – e si può ancora fumare.
MIDNIGHT IN PARIS di Woody Allen, Usa Spagna 2010, durata 94 minuti