MARIGOLD HOTEL
In fila alla cassa incontriamo per la seconda volta la pantera grigia adusa a chiedere una riduzione “over senior”, fantasioso mascheramento dell’impronunciabile parola “anziano”. Sicchè, dopo la pressante offerta di preparati adesivi per dentiere, apparecchi per deboli d’udito, pannoloni profumati per apprendisti incontinenti, anche il cinema ha scoperto un’appetibile fascia di consumatori. I quali, invece di meditare o di accudir nipoti, si danno ai rigurgiti dell’affrancamento, anche se impolverati, imbottiti, e muniti di protesi varie. E non è tanto la vita che si allunga, quanto il mercato che ha bisogno di allargarsi.
Specularmente alla sovrapproduzione per teenager, ecco dunque le proposte per “over qualcosa”, suddivise in accurati segmenti: sugli schermi, solo questa settimana, Il mio peggior nemico per il comparto “speranzosi al crepuscolo” e questo Marigold Hotel per la famiglia volenterosa degli “indomiti al tramonto”. La notte fonda, invece, si è sempre portata, con innumeri opere sulla morte, ad azzerare ogni catalogazione impropria. E se è vero che dietro non ci si trascina niente, a forza di rilanci in extremis si comincia a sospettare che sia cosa prudente munirsi di un po’ di moneta e di audacia anche per l’aldilà, a scanso inadeguatezze.
Si comincia bene, nel modo più clssico, con la presentazione dei personaggi che annovera una parata di mostri sacri (Judi Dench, Billy Nighy, Tom Wilkinson, Maggie Smith) tutti racchiusi in pochi sapidi tocchi; si prosegue meglio, con la dislocazione esotica della senilità in un hotel di Mumbai, ultima speme per chi si accorge di amare in modo urgente la vita quando ormai è troppo tardi; si continua a singhiozzo, con le debite dispepsie e aritmie, alternando vivacità e goffaggini.
Sullo sfondo, una location appropriata che consiste in un albergo cadente (secondo le mai mantenute promesse dei dépliants fotoshoppati) e in una geografia indiana di colori e di mitezze, che fa sognare ma non impegna. Si finisce fiabescamente in gloria, tra banalità, struggimenti, melensaggini, una morte e una quasi resuscitazione.
Il pubblico, tutto rigorosamente del target preventivato, partecipa e si riscatta senza nemmeno scomodarsi per il viaggio da Londra, mentre in altre sale cinematografiche giovani irridenti – e ignari di quanto capiterà fra breve anche a loro – si dilettano di illusioni appositamente allestite. Naturalmente non mancano i due ragazzi coprotagonisti, a riequilibrare fisiologicamente tutti questi amori tardivi (perchè in fondo sempre di questo si tratta) offrendo altresì quel pizzico di voyeurismo che tanta parte ha nella vita avanzata, quando alle proprie emozioni si sostituiscono quelle degli altri. Ma è anche una delle tante zoppìe del film, con un esagitato Dev Patel (The Millionaire,2008) imitante il fu Peter Sellers, ulteriore conferma di un occhio più che vigile al botteghino.
Il regista John Madden, dopo l’ineguagliato Shakespeare in love (1998) deve ritenere che il dollaro coniugato con l’Inghilterra gli porti bene e quindi ci dà dentro con il genere british, qui esaltatissimo non solo nella scelta dei vetusti attori (con l’evidente scopo di lusingare i fruitori, che analizzano con concorrenziale soddisfazione le rughe e gli imbolsimenti delle star) ma anche nel confronto di due popoli, uno colonizzatore poi ri-rosicchiato nella sua isola, l’altro suddito riscattato ed emancipato, ma ancora in grado di provocare rigetti, prepotenze , pentimenti, consolazioni e nostalgie, secondo i dettami di un’improbabile accoglienza . Ma Dio ne scampi da accenni troppo seri di stampo letterario-storico -sociologico, anche se Rudyard Kipling viene più volte citato. L’operazione è solo furbetta, buona al massimo per una serata televisiva, quando le pecche si minimizzano mediante altre distrazioni.
La recitazione è appropriata, a tratti il mestiere fa capolino fra le battute e riesce a strappare qualche sorriso e qualche commozione, anche sulla base di un’altra furfantata equivoca, ossia quella di strizzare l’occhio quando si sospetta di non poter essere presi sul serio. Tuttavia si ha il timore (eufemismo per “quasi certezza”) che da un po’ di tempo a questa parte si stia affermando l’andazzo della bischerata da competizione. Nel senso che tutti producono e si confrontano con gli altri tutti, sottintendendo il pensiero : “se ce la fa lui, così deficitario, perchè non potrei farcela anch’io?”. E via di diluizioni del senso critico e autocritico.
Niente di mortale, ma di venialità in venialità, la settima arte (e con lei le altre sei) diventa sempre più mero mercato, mettendo sullo stesso piano gli spunti interessanti e quelli anodini, purchè ben confezionati e mirati. Uno spreco di tempo, di professionismo e talvolta anche di talentuosità, a generar confusione . Confermata dalla soddisfazione all’uscita: denti finti o no, il boccone è stato ingoiato avidamente, magari insieme alla speranza di altre -sin qui insospettate- occasioni.
Peccato, perchè alcuni spunti sono buoni, ma il denaro, la segmentazione e la fretta portano alla mistificazione, alla vacuità e all’assuefazione inconsapevole nei confronti del “mediocre-pasticciato-carino-ruffiano”, per una popolazione allevata all’anosmia fin da giovane. Quasi che al cinema di generi (giallo,western, horror, ecc) si cominci progressivamente a sostituire un cinema per generi (ragazzi, giovani, maturi, anziani, anzianissimi e.. immortali).
MARIGOLD HOTEL di John Madden, Usa 2012 , durata 123 minuti