MADRI NOSTRE
La morte è un evento , morire è un processo . La prima determina in chi rimane una cesura netta , il secondo comporta una più o meno lunga sequenza parallela , sdoppiati fra la speranza , la rassegnazione e l’attesa di una perdita che si svolge nell’inadeguatezza , lungo la distorsione delle omissioni . E tutto diventa emotivo , contradditorio , pragmatico , presente eppure già anticipatamente assente nelle deiezioni degli oggetti , degli ambienti , dei lacerti trascorsi . Finchè si giunge al punto , sempre stremati e sempre increduli , ma in qualche modo sollevati almeno dalla dedizione dell’accudimento . Perchè improvvisamente chi sta per lasciarci diventa prezioso nella debolezza delle carni , nella sofferenza dell’anima e del corpo , nel doloroso vagare della mente , nella contraddizione salvifica e disturbante degli altri doveri quotidiani . Mentre le persone al contorno ci testimoniano che ognuno porta con sè segreti mai svelati , spazi non conosciuti , dettagli rimossi . Nel percorso del distacco si comprende che siamo stati diversi gli uni agli occhi degli altri e che non si può più ricuperare nulla , se non i ricordi uniti ad una fisicità momentanea mai conosciuta prima . Tenendo le loro mani tra le nostre , si diventa genitori dei nostri genitori nel momento in cui ci si dispone a non essere mai più figli .
Di questo e quasi solo di questo tratta veramente l’ultimo titolo di Nanni Moretti , il più sentito ed autobiografico , e lo fa in modo sommesso e universale , fornendo una traccia precisa e pudicamente trattenuta che ogni spettatore può riempire per conto proprio , creando così una corrispondenza rara tra l’autore , l’opera e i suoi fruitori .”Fatemi tornare nella realtà” urla lo sciagurato , cialtronesco attore americano che interpreta il velleitario film in corso d’opera di Margherita Buy , la figlia . Schiacciata dall’inidoneità del progetto , nonchè dai travagli sentimentali di una vita pasticciata tra l’amante congedato , la ragazza adolescente , il padre di ruolo . Mentre il fratello ingegnere – lo stesso regista – si licenzia in un atto di ribellione , di rifiuto e di compassione per stare vicino a tutti , e la madre – una straordinaria Giulia Lazzarini – trascorre già definitivamente segnata dal letto d’ospedale a quello di casa . Fino all’elezione dell’ultimo vestito , patetico accenno di umana pietas , scelto inconsapevolmente in altri momenti per chissà quale diversa e magari lieta occasione . Fatemi tornare alla realtà , direbbero anche gli altri , se non fossero – fossimo già tutti dentro a quel breve romanzo stravolto che è la vita . Qui ingoiata anche da bruschi sogni , da proiezioni fantomatiche , dall’ombra bianca delle cliniche , dal borghese anonimato di case rese confortevolmente vecchie dall’accumulo delle abitudini , dai set disturbati secondo una simulazione scenica che non riesce a prendere quota , cancellata per via di ben altre cogenti urgenze , compreso il problema delle bollette della luce . Perchè la morte è mistero , quotidianità prosaica , ma anche cartina di tornasole esistenziale : si continua a vivere con una consapevolezza diversa e , pur non riuscendo mai a fissarla a lungo direttamente , le antiche traiettorie si spostano , modificando mete e intenzioni .
Se La stanza del figlio era circoscritto al timore esorcistico della morte giovane intesa come evento ( resa ancora più tragica dall’innaturale sconvolgimento biologico-temporale di un ciclo fogliare che diamo per scontato ) , a partire da Il Caimano e con Habemus papam Nanni Moretti ha continuato il suo racconto tra vita e finzione , effettività e rappresentazione . Contestualizzando il privato e il politico attraverso progressivi filtri , come se solo una certa presa di distanza dai suoi precedenti solipsismi gli consentisse di accomodarsi meglio nella diagnosi , nella confessione e nel riassunto di un punto di vista . La parte sociale qui è la più debole , anche se funzionale al racconto , e sembra non offrire nessuna speranza civile nel conflitto filmico tra padrone straniero – dipendenti nostrani . Suggerisce tuttavia un sommesso esempio laico intorno al tema della vecchiaia , reso problematico dall’allungamento della vita e dalla precarietà dei nuclei famigliari , fino all’indifferenza così spesso circostanziata dalle cronache . Viceversa , l’avvicendamento degli schermi e dei sosia è meglio riuscito e si dipana con sottile puntualità nell’apparente sdoppiamento complementare della fratellanza , nella dualità fra la maschera attoriale e la verità individuale di John Turturro , e nella dicotomia della madre , affetto privato e al tempo stesso pubblico nel suo ruolo di ex insegnante . Mentre il mantra registico intorno alla presenza dell’attore accanto al personaggio interpretato fa da motivo conduttore durante tutto il film . Che si lascia perdonare qualche forzatura schematica della cornice grazie all’autenticità esperienziale di tocchi e rintocchi , mediata da una commozione autografa che lo pervade e lo illumina . In sordina , con calcolata , apparente semplicità , senza sofismi registici e bellurie fotografiche , e quindi con partecipazione tanto più autentica quanto meno sollecitata .
MIA MADRE di Nanni Moretti , Italia , Francia , Germania 2015 , durata 106 minuti