LOOPER
Guai a cercare sul vocabolario, perché alla parola looper compare come traduzione “bruco misuratore”; ma cos’è un bruco misuratore? Un looper. Ricominciamo: il looper è una specie di ronin del futuro, che a sua volta è un ex samurai operante su commissione, naturalmente non in ambito filantropico. Stabilito un pur labile nesso fra epoche diverse, menzionati sia Philip K. Dick (che nei soggetti fantascientifici non guasta mai) sia Terminator (1984) e fatta quindi con poca spesa la nostra doverosa figura professionale, godiamoci questo film interessante, dopo la recente coltellata nelle scapole dei fratelli Wachowsky con il loro Cloud Atlas .
Kansas, 2044, tempo presente della vicenda: i viaggi nel futuro non sono ancora diventati una possibilità, ma trenta anni dopo ci si sguazzerebbe, se non fossero assolutamente proibiti. Poiché ogni legge è anche inganno speculare, la malavita del 2070 ha escogitato un espediente: inviare nel passato le persone di cui si vuole sbarazzare, utilizzando come killer a pagamento appunto dei looper (etimologicamente coloro che chiudono il cerchio o il cappio) incaricati sia dell’uccisione come dello smaltimento dei cadaveri. Joe è uno di questi, e svolge con diligenza il suo incarico, stivando nella cassaforte del suo loft mucchi di lingotti d’argento. Ma nel 2070 le cose stanno cambiando, e un tal Sciamano, più spregiudicato degli altri, ha instaurato una dittatura del male: ogni looper del 2044 deve essere a sua volta eliminato, e in questo senso Joe ha un attimo di fatale esitazione durante la sua ultima commissione, che lo pone di fronte ad un se stesso ultracinquantenne. A partire da questo momento la trama si complica e si frantuma in una serie di sottotrame passate e future, con i due Joe a farla da padrone, tra giovinezza e maturità, passionalità ed esperienza. Alla fine i conti si pareggeranno senza tornare, nel senso che il portato filosofico e il teorema che lo sostiene non persuaderebbero un contabile impegnato in una partita doppia.
Ma la fantascienza è un intrattenimento esorcistico e non un manuale di ragioneria: in genere le si chiedono suggestioni proiettive in grado di illuminarci anche sul presente (cosa che il film riesce a fare grazie alle contraddizioni angosciose e alla contemplazione della falsa speranza finale) sostanziando in carne ed ossa il tema letterario del doppio, così come il dualismo tra fato necessitante e libero arbitrio. Certo, giocare con le epoche non è mai facile, come esemplificano libri tipo La freccia del tempo di Martin Amis, Il curioso caso di Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald o Un’altra giovinezza di Mircea Eliade, questi ultimi due anche soggetti cinematografici. Ma il regista Rian Johnson se la cava egregiamente perché non cade in trappole fin troppo abusate quali l’esaperazione avveniristica e i trucchi rocamboleschi che, nonostante la tecnologia, spesso sanno di cartone come le torte dei cake designer.
In un certo senso gioca addirittura sul tradizionale, contrapponendo una prima parte malavitosa ad una seconda maternal-affettiva, nonché inventando un futuribile scenografico che gioca con spazi quasi romanticamente isolati alla Corman McCarty e agglomerati urbani di scalcinata perifericità, in una sorta di riedizione dimessa delle cupezze di Blad runner (1982). I dettagli sono quasi più importanti sia della trama che dell’assunto e avvincono grazie alla loro travolgente semplicità. Si vedano in questo senso le materializzazioni dei condannati del futuro, sbattuti come pacchi di fronte ai loro assassini, e con tanto di remunerativi lingotti come ulteriore bagaglio appresso: si manifestano sul suolo atterrando in un quadrato di tela cerata trattenuto da quattro pietre, mentre intorno friniscono le cicale… Oppure gli interni degli abitati e soprattutto dei bar, che ricordano una sorta di contaminazione fra le solitudini al neon di un Edward Hopper di plastica e le cretonnes degli arredi country o i lini dello stile shabby chic. Per non parlare della gerarchizzazione delle armi e delle droghe come colliri, del cibo ancorato alle ricette domestiche degli anni ’50, dei messaggi sulla pelle che a loro volta citano In time .
Insomma, il tema vero è la contaminazione dei generi e delle allusioni e non mancano le chiose paranormali, da Fury (1978) a La maledizione di Damien (1978) secondo un suggestivo pastiche che inscena volontà determinate verso scopi diversi e concatenati, senza che presunte profondità esistenziali gravino un bel racconto anche fotografico, denso di pregi nell’originalità dell’intrattenimento ma diffettoso nell’eccesso di indugi e nel sovraffollamento per ansia da prestazione.
Detto diversamente, questa sarebbe stata una pellicola quasi perfetta se, una volta girata così com’è, fosse stata ripensata, rimontata, snellita, con qualche emozione in più e qualche riferimento in meno, compresa magari una sostituzione degli attori: Bruce Willis è troppo Bruce Willis e Joseph Gordon-Levitt pencola bene tra la ferocia egoistica e l’amore, ma non ha carisma scenico. Qualcuno direbbe “molto da rifare”, ma con i tempi che corrono va benissimo anche così, perché il coraggio inventivo premia comunque.
LOOPER di Rian Johnson, Usa 2012, durata 119 minuti