Film

LO STRAVAGANTE MONDO DI GREENBERG

Ma chi è questo adolescente quarantunenne che imperversa cazzeggiando per tutta la pellicola, che ad averlo vicino di casa ce la si darebbe a gambe nottetempo, abbandonando ori, incensi e arredi, e persino l’orsetto ascellare di peluche? Tranquilli: si chiama Roger Greenberg e vive lontano. Più precisamente, si è trasferito da Los Angeles a New York e ora approfitta della vacanza-lavoro di suo fratello e della famiglia in Vietnam – corsi e ricorsi della storia Usa – per ritornare e stanziarsi nella loro villa, prendendosi una pausa sabbatica dal niente che ha combinato fin dagli anni del college.

Instabile e insicuro di suo (la sceneggiatura gli attribuisce anche un recente esaurimento nervoso) nonché pateticamente autocentrato, Greenberg si installa per costruire una cuccia al cane lupo Mahler, scrivere in modo compulsivo e rigorosamente a mano vecchieggianti lettere di protesta a istituzioni pubbliche e private, riallacciare i rapporti con gli ex compagni di scuola, provare a intessere ondivaghe e contraddittorie tele sentimental-sessuali. Dall’antica fidanzata Beth, ormai madre adulta che non se lo fila per niente, alla giovane assistente di famiglia, a metà strada tra la baby/dog sitter, la governante e la segretaria. Ossia la volenterosa, candida, ingenuamente promiscua Florence, che vorrebbe fare la cantante, ha poco più di vent’anni ed è una pennellona gentile e rosa, tra l’anagraficamente brufoloso e il molto carino. Perché tutti vorrebbero fare qualcos’altro rispetto alla dure leggi della vita adulta. Nel frattempo però si sono accasati, si sono riprodotti, hanno divorziato, eppure non sono così diversi dal protagonista, non avendo dimenticato quello che ognuno – magari insieme in una band – avrebbe potuto diventare, fino a rinfacciarselo reciprocamente.

Scorre così, tra un girovagare in casa e fuori casa, nel tentativo di bere sempre e comunque una imprecisata “cosa” e nella volontà di ritrovarsi per comprendersi, spiegarsi e autodefinirsi, una pellicola centrata su di un individuo, ma di fatto ricca di spunti generazionali; e non a caso il regista e il protagonista hanno la stessa età. Non succede quasi nulla, mentre la bella colonna sonora di James Murphy – da cui occhieggiano anche i Duran Duran e i The Sonics – accompagna l’altra colonna, verbale, del film, equamente suddivisa tra dialoghi diretti e dialoghi telefonici, che la dicono lunghissima sui caratteri, gerghi e costumi dei protagonisti. A loro volta costretti a confrontarsi con le generazioni successive, ancora ignare e insignificanti, ”perchè la giovinezza nei giovani è completamente sprecata”.

Tuttavia, nonostante il chiacchiericcio involontariamente ironico e svagato fino al surreale, questo non è un film teatrale: riesce a raccontare molto più di quello che dice esplicitamente grazie a una sceneggiatura che funziona ad orologio, in un continuo contrappunto di riflessioni e controriflessioni, da cui prendono fuoco elementi propulsivi, consentendo alla (non) trama di proseguire senza noia. Assecondano l’intelligente copione una regia accurata, tanto equidistante quanto partecipe, e una magnifica fotografia, capace di trascorrere dai dettagli emblematici di una casa scenograficamente perfetta alla vaghezza di una Los Angeles resa quasi irriconoscibile da una diffusa caligine. Che rintocca la confusione, in qualche modo anche consapevole, del gruppetto di questi adepti del “come eravamo”senza prospettive o attese sul come saremo/saranno.

Ma siamo lontanissimi da Il grande freddo (1983); piuttosto, fatte le debite proporzioni, più accosto a I Tenenbaum (2001), rastremando la famiglia ad un solo individuo, che riesce tuttavia ad essere quasi un collettivo corale. Infatti il quarantenne regista Noah Baumbach (Il calamaro e la balena, Il matrimonio di mia sorella) è un coetaneo e sodale di Wes Anderson, con cui intesse da sempre una proficua collaborazione.

Magari con dieci minuti di durata in meno il film sarebbe risultato ancora più compatto, ma se ne esce comunque appagati, anche grazie alla bella interpretazione di Ben Stiller, che qui si affranca da una serie di film e filmastri forzosamente ridanciani per assumersi credibilmente sulle spalle magre un personaggio tanto fastidioso quanto umanamente empatico nel ricordo, che l’originale americano seccamente rappresentava con il solo cognome Greenberg. Chissà perché scioccamente dilatato nella traduzione del titolo in “lo stravagante mondo di”, a echeggiare in modo più o meno inconsapevole un vecchio, struggente film del 1965, Lo strano mondo di Daisy Clover.
Ma quella è un’altra storia, mentre Roger è proprio “quel” nostro vicino di casa: lo incontriamo spesso per andare a bere “una cosa” che creativamente – e in spregio a ogni fastidiosa responsabilità preventiva – decideremo poi sul momento come precisare. Ormai si è fatto amicizia, lui forse sta crescendo e non c’è comunque più bisogno di traslocare.

LO STRAVAGANTE MONDO DI GREENBERG di Noa Baumbach, Usa 2018, durata 108 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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