L’EROE DISCRETO
Ci sono romanzi come giardini all’inglese, in cui gli elementi naturali e quelli artificiali concorrono a non irregimentare lo spazio: l’intervento dell’uomo è teso a domare, reinventandolo ed enfatizzandolo, il carattere selvaggiamente casuale della natura. Vi si passeggia sperdendosi in un tempo indefinito,che allarga l’interazione fra il luogo e il lettore, consentendogli di strappare un fiore o di impadronirsi di un ramo per innestarlo altrove. Ci sono romanzi che, viceversa, sono elaborati come giardini all’italiana, in cui il ritaglio dei pieni impedisce ogni intrusione esterna, pena l’alterazione di un equilibrio concepito come perfettamente dato, perché la struttura prevale. A questi secondi appartiene L’eroe discreto, da cui nessuna frase è estrapolabile in quanto priva di cortocircuiti autoportanti, essendo volta esclusivamente alla trascrizione della mera realtà narrata. Tanto che il solo elemento saccheggiabile è la citazione di Borges che campeggia sul frontespizio:”Il nostro meraviglioso compito è immaginare che esistano un labirinto e un filo”.
Individuato dunque il filo che, artefice e viandante, disegna il labirinto e lo percorre stipandolo come un contenitore del Lego, ecco città, quartieri, fatti, persone, svolte e controsvolte che non danno tregua, secondo una densissima simmetria convergente di capitoli che alternano le vicende di due personaggi diversamente oppositivi, in funzione delle rispettive appartenenze sociali. Ma la loro negazione è frontale, ossia distante da quella obliqua di Bartleby, il cui sommesso ed esistenziale rifiuto è una sorta di paradosso: di lui non si sa nulla, nemmeno le ragioni di quell’insistente “preferirei di no” che ostacola richieste perfettamente logiche e accettabili, tanto da portarlo ad assumere una veste duplice, letteraria e filosofica. Letteraria perché tutto il racconto è vertiginosamente incentrato sulla non narrazione di un enigma; filosofica perché l’opposizione trasforma il rifiuto nell’opzione di un possibile e personalissimo modo nichilistico di stare al mondo.
Invece i due principali protagonisti de L’eroe discreto (dal participio passato latino di discernere, giudicare con dirittura) ostacolano sia soprusi sia minacce esplicite in modo altrettanto esplicito, secondo coscienza, e di loro si viene a sapere proprio tutto quanto assurge laicamente ai vertici del coraggio morale e civile senza consapevolezze paludate, attestando in solitudine un’integrità dell’io che dovrebbe riguardare anche la comunità. La loro grandezza consiste dunque nell’elevare a trepida unicità un rischioso sentire non condiviso, intorno a cui si addensano le incarnazioni mute di chi non sa, oppure di chi non osa ma approva per interposta persona, come di chi rema contro perché gli sta bene così, e si adopera affinché gli equilibri pendano pervasivamente dalla sua parte.
Felìcito Yanaquè è l’ex poverissimo e metodico proprietario di una impresa di autotrasporti in quel di Piura, cittadina rurale del Perù sconnessa dalla transizione verso la modernità capitalistica: è infelicemente sposato per uno spasmo giovanile, ha due figli operosi, una vecchia moglie sotto formalina, una giovane amante di cui ama il conforto delle curve. Tutto proseguirebbe per il meglio, ma un giorno riceve una mafiosa richiesta di pizzo, firmata con uno scarabocchio in forma di ragnetto, cui si oppone in nome dell’unica eredità paterna, quella di non lasciarsi mettere i piedi in testa da nessuno. Rigoberto invece abita a Lima, ha una seconda moglie che gli riempie la vita, un figlio adolescente che sembra avere delle visioni, è un colto dirigente di una compagnia di assicurazioni guidata dal suo più caro amico. Mentre sta per andare in pensione, deve fare da testimone al matrimonio di costui con la domestica, muovendo consapevolmente incontro alle ire bramose di due figli delinquenti, che vengono legalmente esclusi dall’eredità a favore della nuova padrona di casa.
Tutta la prima parte del romanzo è, se non lenta, circostanziata in modo tale da preservare il fiato per le pagine seguenti, in cui gli intrecci esplodono ingegneristicamente secondo un incastro di sapienziali misture: un tocco di quasi noir, una moderata serialità di personaggi mutuati da altri romanzi dell’autore (La casa verde, Elogio della matrigna), cenni di un realismo magico interrogante (Mutis, Cortàzar, Fuentes, Garcia Marquez), elementi di un folklore antico in via di normalizzazione liberistica, frammenti di un colonialismo quasi esangue, seppellito dall’ormai occidentalizzato così fan tutti, con i soliti media carogneschi e illetterati a fungere da eco deformante di una realtà a sua volta distorta da un affaristico edonismo.
Eppure non c’è traccia dei noti ingredienti del romanzo attuale che trasla il contenuto ricorrendo ai generi, oppure sperimenta ibridando i temi, gli stili e la loro organizzazione, perché Vargas Llosa, come i suoi personaggi, si oppone anche lui ad un certo modo arrendevole di concepire la letteratura. Tutto è impietosamente attuale eppure rigogliosamente e rigorosamente classico, ossia pensato e realizzato per durare al di là delle contingenze e dei vizi del mercato, sulla base di un assunto liberatorio: non solo i fatti non andranno come programmato, ma neanche le premesse del romanzo, perché la lusinga della vita è lì, a portata di mano, come un frutto pieno che attende, grazie al pirotecnico ribaltamento della tragedia in una pochade di agnizioni.
Intanto la scrittura, che pareva esclusivamente adeguata agli eventi e perciò esentata da ogni forma di metafora o di allusione, non solo si dilata via via impercettibilmente, ma gioca di sbieco i tempi del raccontare attraverso i discorsi diretti e indiretti, fornendo una mirabile e quasi inavvertita lezione sull’utilizzo del flash back. Ogni parola è motore e al tempo stesso dettaglio, su cui s’innesta il punto di vista dell’autore-marionettista che non esalta profondità criptiche o nostalgiche, ma la pura voglia di narrare una modernità in forma di brago dilagante, mentre un fato atavico, più sudamericano che greco, confonde i dadi e premia alla vita gli eroi discreti che non si sono piegati alle sue insidie, proprio perché prima hanno detto di no. L’intrattenimento è alto e continuo,assicurato da un’inventiva fervida e da un mestiere funambolico che però, in qualche modo, costituiscono anche il limite del libro, perché al lettore che invece dice di sì non viene lasciato il benché minimo spiraglio di condivisione o di echi, per eccesso di geometrica pienezza.
L’EROE DISCRETO di Mario Vargas Llosa , Einaudi 2013, 375 pagine, 21 euro
LA CITAZIONE
“Era stato allora che aveva avuto l’idea degli spazi salvifici, l’idea che la civiltà non fosse, non fosse mai stata un movimento, uno stato di cose generale, un’atmosfera che abbracciava la società nel suo insieme, ma che sopravvivesse in minuscole cittadelle edificate nel tempo e nello spazio, che resistevano all’attacco permanente di quella forza istintiva, violenta, ottusa, brutta, distruttiva e bestiale che dominava il mondo e che ora era penetrata in casa sua”.