LE IDI DI MARZO
Ridotto alle fatidiche frasi “alea iacta est” e “veni vidi vici”, Giulio Cesare imperversa in questi giorni sugli schermi televisivi grazie alla pubblicità della Tim, mentre George Clooney, regista e interprete, ce lo ricorda con il titolo del suo ultimo film, Le idi di marzo. Data solo temporaneamente finale di una visione provvidenzialistica della storia, che fece dire a Jorge Luis Borges in una lirica ispirata al dramma di Shakespeare: “qui quelli che lasciarono i pugnali, qui la povera cosa, un uomo morto che si chiamava Cesare”. Proprio mentre Luciano Canfora ne reinterpreta la biografia, interrogandosi sull’ancora attualissimo perché della sua fine, in un bel libro appena edito da Laterza che caldamente raccomandiamo. Revival o coincidenze? Probabilmente corsi e ricorsi vichiani, con la differenza che la morte di Cesare schiudeva le porte all’avvento di Ottaviano e alla grandezza di Roma, mentre forse noi siamo a Romolo Augustolo, ossia alla fine dell’impero e all’avvento di nuove barbarie. Ma il tema del tradimento rimane lo stesso, sia chiuso tra le pareti intime di rapporti ristretti, sia spalancato sul più vasto proscenio delle politiche locali e mondiali, tutte ormai giocate intorno alla solita scommessa fra seduttori e sedotti, ossia fra candidati ed elettori, con un moderno terzo attore-intermediario a complicare le trame: la “scienza”e i mezzi della comunicazione, spie, interpreti, denigratori o sostenitori amplificati dell’uomo di volta in volta “giusto” (che sempre più difficilmente potrà essere tale, rispondendo comunque a qualche interesse preciso, con nefasta coincidenza tra le motivazioni personali e le avidità sia conservatrici che espansionistiche delle categorie dominanti).
Il meccanismo delle elezioni americane, con la sua lunga rincorsa, assomiglia alle regole del baseball: per quanto se ne abbia contezza, rimane sempre un po’ incomprensibile. Ne Le idi di marzo siamo in Ohio e la scelta che si pone è fra il candidato democratico Mike Morris (Clooney) e il suo avversario repubblicano. Intorno, lo schieramento dei due clan contrapposti, capitanati dai rispettivi responsabili della campagna elettorale, unitamente ai loro addetti, fra cui spicca il vero e bravissimo protagonista del film (Ryan Gosling), un giovane intelligente e smaliziato che prima crede – seppur pragmaticamente – nell’Ideale, e poi abbandonerà ogni illusione consegnandosi corpo e anima alla spietata macchina del potere. E con il plot ci fermiamo qui perché, pur essendo un film apparentemente di impegno civile, in realtà ha proprio nella sceneggiatura romanzesca il suo punto di forza, che consente allo spettatore di svagarsi amenamente, con attenzione sospesa, sino alla fine.
La scelta registica non era facile, potendosi perdere fra specificità tutte statunitensi, oppure ricalcando numerosisissimi altri film di analogo argomento. Ancora una volta il nostro George (fascinoso e brillante individuo, qui nell’ammaccato splendere della sua maturità) se la cava in modo egregio, filmando frontalmente una storia apparentemente lineare, eppur frantumata dai continui risvolti e controrisvolti di un precisissimo congegno quasi thrilling. Mettendo da parte ogni scontato déjà vu grazie al continuo entrare ed uscire dal contesto del medesimo occhio bifronte della macchina da presa. Così che, mentre la trama si dipana, da un lato si assiste alle implicazioni delle frasi ad effetto del candidato modello, sempre bilanciate tra ironia accattivante e temi alti: il disimpegno bellico, la felicità dei cittadini prevista dalla costituzione americana che può sostituire ogni credo trascendente, la condanna della pena di morte, i diritti degli omosessuali… mentre i prevalenti retroscena si intrecciano, per confondersi e confluire nella storia pubblica. Dall’altro si penetra nel contrappunto degli ambienti ufficiali, dei corridoi desolati, delle panchine deserte da cospiratori solitari, dei vari dialoghi diretti, telefonici o addirittura muti – in quanto traguardati da lontano – tanto è facile immaginarli comunque. A tratti accostabili a quel bel film di Francis Ford Coppola che è La conversazione (1974).
Anche gli altri attori al contorno danno il loro meglio,da Philip Seymour Hoffman a Paul Giamatti, secondo un afflato di rigore e professionalità che permea tutta la livida pellicola, precisando una sorta di nuovo filone classico ed “europeo” dell’attuale filmografia americana. Si rimane con un rimpianto, un dubbio e una costatazione: il primo riguarda gli iniziali approcci registici del felicemente versatile Clooney, più imperfetto, meno diligente, ma più originale e ispirato, come ne Le confessioni di una mente pericolosa (2002). Il secondo si riferisce ad un altro film di classico intrattenimento (Michael Clayton, 2007) interpretato sempre dallo stesso George, con un primo piano finale più lungo – ma assolutamente apparentabile – e con la caratteristica di crescere nella memoria o nella rivisitazione dello spettatore, particolarità che non siamo sicuri possa riguardare anche Le idi di marzo. La terza si riferisce all’inevitabile confronto con la nostra pervasivissima attualità politica: se proprio dobbiamo o vogliamo essere ingannati, meglio comunque nel modo descritto che non a furor di ceroni, incompetenze, cinismi abborracciati e diti medi.
LE IDI DI MARZO di George Clooney, Usa 2011 , durata 101 minuti