LAST NIGHT
New York: il classico bell’appartamento open space di una giovane coppia sposata da tre anni, con alle spalle altrettanti anni d’amore ai tempi del college. Lo sfrido di una conversazione di gelosia, che sembra punteggiare le giornate coniugali come il frinire delle cicale in estate. Gelosia che si manifesta così, perché è stagione, e continua solo per continuare a continuare. Oppure per esprimere malesseri imprecisati, che le parole non riescono a circoscrivere.
Ma le parole talvolta riescono a istillare delle idee, anche se quelle idee prima non c’erano: come l’attrazione nascente di lui per un’altra, che puntualmente assume concretezza proprio durante un viaggio di lavoro, se non altro perché indagata e preannunciata. Mentre lei si fa rapire dal rimpianto per un ex mai confessato né consumato, che puntualmente compare nella stessa mattina spettinata, una di quelle in cui si porta a spasso il cane, e ci si veste per non incontrare nessuno.
Con una doratura patinata degna di migliori fritture, la contemporaneità del doppio tradimento viene consumata a quadri alternati, mentre le parole di una situazione si sovrappongono alle immagini dell’altra, e viceversa. Fino allo scontato finale, che si interrompe all’improvviso, lasciando intendere una possibile discussione inutile – ma questa volta motivata – come quella iniziale.
La fedeltà, la tentazione, il rimpianto, l’aspirazione ad essere una cosa sola mentre si è spesso due, permeano tutto questo svolgimento da temino delle elementari concepito ad una scrivania di lusso, e su un computer di ultimissima generazione (tra l’altro vistosamente pubblicizzato).
Bisogna essere dei titani per girare un film d’amore su basi così esili, sia nella trama che, soprattutto, nei personaggi, così poco introspettivi. Che vagano da un bicchiere all’altro, da un appartamento all’altro, da una suite d’albergo all’altra, affondati in un malessere di vivere da rivista di moda, scoprendo di non essere felici come da pretese istituzionali. E che sembrano lavorare per caso, naturalmente svolgendo mestieri hobbistici quanto improbabilmente attinenti ad un imprecisato concetto di arte. Tra una smorfietta di Keira Knightley che (se non fosse una adorabile bellezza androgina) sembrerebbe aver copiato i continui esitanti balbettii da una parodia di Woody Allen, e le guance da boxeur di Eva Mendes (che invece androgina non lo è per niente). Mentre i due maschi insignificanti fanno da contorno alle api regine.
Non succede altro, e anche il più fradiciamente romantico degli spettatori non trova una sola frase Perugina da appuntarsi e srotolare al momento giusto per future occasioni meditativo-seduttive. Però, misteriosamente, ci si rassegna di buona grazia. Gli ambienti sono belli, di Keira s’è detto, la regia è accurata e la fotografia accorta, perché non cede alla tentazione della cartolina.
Della colonna musicale non abbiamo contezza, non l’abbiamo proprio sentita, mentre apprendiamo che la regista è una trentaduenne di Teheran che dimostra di saperla lunga in termini di mass market, tralasciando l’attualità iraniana a favore delle scatole di cioccolatini ben confezionate. Dentro sono tutti belli e tutti con lo stesso sapore.
Ma sorge un dubbio finale: vuoi vedere che il film è elegantemente sciapo, perchè tale è l’ambiente e la generazione che a quell’ambiente appartiene? E che la giovane regista Massy non ha girato un filmetto di levigata pretesa, bensì dato voce ed immagine a una esaustiva inchiesta sociologica? Perchè solo così, accanto a tremende bocciature, si potrebbero spiegare alcune critiche (poche) altamente positive.
LAST NIGHT di Massy Tadjedin, Usa Francia 2010, durata 92 minuti