L’AMORE CHE RESTA
“Entra fra queste braccia. Se ti parve meglio per me non sognar tutto il sogno, ora viviamo il resto”. Così John Donne, in una delle sue più celebri poesie, nell’insuperata traduzione di Cristina Campo. E mentre quel che là restava era l’impegno di un futuro condiviso, qui quello che resta sono tre mesi d’amore fra due post adolescenti corteggiati innaturalmente dalla morte. Nonché un consolatorio ricordo per lui e una breve condivisione per lei. Premessa per l’uno di una diversa disposizione a vivere, mentre per l’altra non è dato sapere.
In seguito alla dipartita dei genitori e ai suoi tre mesi di coma, lui vive come di sbieco, pronto ad infilarsi nelle uniche aperture che la vita sembra offrirgli: i funerali di sconosciuti, a cui partecipa in un desueto completo da lutto, forse per rivivere il senso della dipartita, forse per indagare il confine che separa i vivi dai trapassati. Lei invece è una vivace appassionata di scienze naturali, lo vede e subito lo sceglie, con la prontezza di decisione che spesso contraddistingue le donne, le quali – forse per questo – in genere pagano di più. Fra di loro, a parte i soliti pochi adulti che fanno da comparse per catalizzarne le ribellioni, un fantomatico giovane kamikaze giapponese e il tumore al cervello di lei.
Quel che ne discende ricalca, molto meno canonicamente, il celeberrimo e melenso Love Story (1970) in cui il regista Artur Hiller si giocava la carta dei due attori carini dell’epoca: Ryan O’ Neal e Ali MacGraw. Ma Gus Van Sant è molto più smaliziato, e quindi almeno ci risparmia i cascami delle frasi di peluche che derivarono da quella prima sciagura: “Il saper vincere consiste in parte nel saper perdere”, “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”… Pseudoaforismi che hanno costituito il tormentone di anni, ammanniti ad ogni piè sospinto, sia come contorno alla bistecca al sangue che come lenimento per l’ictus del pesce rosso.
Ne L’amore che resta, sembra che agli inizi ci si trovi viceversa nei dintorni di un’altra quasi metafisica coppia di solitudini, ossia quella costituita da Harold e Maude (1971). Ma è un’illusione momentanea, dovuta a poche brevi ispirazioni tratte da una pellicola di ben altro equilibrio: presto il regista dichiara il suo gioco di decostruzione e di arricchimento del plot di riferimento, cercando non solo di coniugare il tragico con il quotidiano, ma anche di provocare delle torsioni arbitrarie alla realtà – cui pure vuole rimanere contraddittoriamente accosto. Con un risultato di fumosità e di sofisticherie gratuite , incerto sul versante dello struggimento giovanilistico come su quello filosofico-esistenziale intorno al tema dell’Aldilà.
Tutto ciò non soltanto in forza dell’atonia o del morboso straniamento (quasi prossimo ad una entomologica “curiosità”) con cui la morte soprattutto fisica viene indagata, rappresentata, esorcizzata, ma particolarmente in funzione della presenza del personaggio giapponese. Dapprima amico immaginario di lui nonché coscienza o alter ego protettivo, testimone del proprio inutile suicidio d’ordinanza e in questo senso eventuale dissuasore del protagonista; in seguito puerile avatar anche di lei che, vedendolo finalmente, annuncia il suo imminente distacco verso l’altrove o il nulla. E infine mediatore fra i due, nonché catalizzatore dei loro dialoghi, che quasi sempre si svolgono al riparo delle simulate intercessioni anche di altri: i genitori nella tomba, i cadaveri all’obitorio.
Ma tutto così, “tra il lusco e il brusco” di un cupo tinto di rosa, che smorza qualsiasi emozione. Con qualche ulteriore trucco qua e là, costituito ad esempio dalla commedia alla Romeo e Giulietta che i due scrivono, ingannando ironicamente lo spettatore sulla loro precoce, reciproca fine.
Per i tifosi entusiasti che invece comprensibilmente ci saranno, corre l’obbligo di avvertire che non si tratta di “non capire un film”, in cui peraltro non c’è molto da capire. Semplicemente, per motivi di gusto personale, ci sembra più un’operazione intellettualistica a tavolino che non un’opera di presa emotiva, quasi a dimostrare quanto si sia bravi a smontare un meccanismo già sfruttatissimo. Peccato che non si sappia costruirne un altro che abbia comunque una fisionomia o una identità proprie, nonostante i molti sottili o anche scoperti rintocchi e richiami di una sceneggiatura più pensata che sentita.
Se ne esce stuccati come da una mistificazione frigida, nonché irritati anche da ulteriori carenze, quali l’uso della modesta colonna sonora, che parte ad organetto nei presunti momenti “sensibili”, con effetti raggelanti che richiamano le nozze con taglio di cravatta, quando si comincia a urlare “bacio, bacio”. Un’unica consolazione: la complessa bravura dell’attore protagonista, figlio di Dennis Hopper. E una raccomandazione, se possibile: quella di vedere Paranoid Park per constatare con quale altra originalità di accenti lo stesso regista abbia saputo affrontare, nel 2007, il tema della giovinezza, della solitudine, della morte.
L’AMORE CHE RESTA di Gus Van Sant, Usa 2011, durata 95 minuti