L’ALTRA VERITA’
Liverpool: un fiume che va e che viene… no, un battello che va e che viene per tutta la durata del film. Sopra, due ragazzini che sognano di espatriare. Qualche battello dopo, la vita li porterà in Iraq come mercenari, o, per meglio dire, contractors superpagati per proteggere le vite dei civili che contano. Uno dei due tornerà indietro in una bara, sfigurato da un incidente a Baghdad, sulla tristemente famosa Irish Route, che unisce la città all’aeroporto. I superstiti non si danno pace circa la scarsa chiarezza della sua fine e con qualche misterioso indizio sparso a qua e là iniziano il percorso verso una verità, ovviamente diversa da quella ufficiale.
Protagonista è l’amico sopravvissuto che, pur avendone viste di tutti i colori ed essendo tutt’altro che timorato di Dio, comincia a venire assalito dai sensi di colpa nei confronti del defunto. Accanto a lui, la vedova bionda, donna amata da entrambi, al vertice di un triangolo amical amoroso. Con qualche ricaduta della costei tra le braccia del costui sopravvissuto, nonostante si sappia come in termini di appeal retrospettivo i morti non abbiano rivali.
Comincia così una complicata quanto confusa caccia ai fatti e alle persone presenti laggiù al momento dell’incidente, complice un telefonino che ha filmato la scena e che va e viene anch’esso, come il battello, facendo la spola tra gli indiziati rimpatriati a Liverpool. Secondo un gioco abbastanza tetro e scontato di tracce e di pestaggi, ché la violenza, una volta esercitata, diventa una seconda natura. Mentre gli spettatori qua e là si assopiscono, contribuendo di loro a un mistero pasticciato ma poco misterioso, dipanato a zig zag tra tecnologie varie, telefonate locali e intercontinentali, flash back su un passato felice e su una guerra bestiale, complicata come sempre sia dalla politica che dagli affari. Senza farsi mancare né l’invidia né la vendetta né il tradimento. Fino alla catarsi finale, che il succitato fiume accoglie indifferente.
Coadiuvato dal suo storico sceneggiatore Paul Laverty, ancora una volta Loach si propone come campione di una verità alta, tutta tesa a destrutturare l’ideologia borghese e capitalista, di cui la guerra (di morte come d’affari) è uno degli emblemi più attuali. Tutte le ambiguità di scopi sottaciuti e di proclamazioni ufficiali, unite alla compassione per le popolazioni locali, di volta in volta pretestuosamente “protette”, in realtà prime vittime.
Nei film del regista settantacinquenne, coloro che cercano la verità e il riscatto della giustizia sono sempre uomini magari oscuri, magari colpevoli, ma comunque capaci del colpo di reni del riscatto, guardando negli occhi i propri fantasmi che la realtà che li circonda. E arrivano a forzarla, anche a costo del sacrificio di sé.
Accade pure in questo film, complice l’amicizia di una vita, teatralmente condita dal binomio amore-morte e del dolore di uno per quello che tutti e due sono diventati: l’impegno non è solo quello di smascherare la menzogna, bensì di rispettare le volontà dell’altro, un ultimo atto di pietà nei confronti di due morticini indigeni e della loro madre.
Peccato solo che di pellicole sull’esportazione della “democrazia occidentale” sotto forma di azione tanto protettiva quanto belligerante se ne sono già visti moltissime, e decisamente migliori. Peccato anche che, probabilmente consapevole del fatto, la collaudata coppia regista-sceneggiatore abbia cercato di dare agli eventi descritti un andamento thrilling sia sul versante dei fatti che su quello delle coscienze, che evolvono in parallelo. Peccato ancora che tutta la vicenda si appiattisca su se stessa, mal distribuita tra la pretesa tensione investigativa e la volontà di far intendere la portata storica dei machiavellismi politici e militari attorno al business dei contractors.
Ne scaturisce una terza verità: quella dello spettatore. In grado di fiutare come pretestuosi i personaggi troppo scontatamente emblematici, al punto da generare più incredibilità che partecipazione. Come di non aderire ad un plot dichiaratamente costruito in funzione di un teorema pensato con la mente ma abborracciato nel sentimento. Ne esce un pastiche di generi non lineare, incapace di generare partecipazione emotiva o suspence interrogante.
Tutto il mestiere cinematografico accumulato dal regista qui è affidato quasi alla sola fotografia: nitida e cupa, ma al tempo stesso improntata ad una sorta di domesticità da filmino amatoriale. Sì che, quando ci si riscuote dal torpore, spesso sembra di entrare o essere all’interno dei singoli fotogrammi. Comunque poco per un film che è sia troppo lento che troppo accelerato o ellittico sui retroscena che vuole raccontare. E che si salva impropriamente non come espressione cinematografica, bensì in virtù delle serie e condivisibili intenzioni che lo ispirano.
L’ALTRA VERITA’ di Ken Loach, Gran Bretagna 2010, durata 108 minuti