LA VITA DI ADELE
Una delle caratteristiche ricorrenti della sempre pregevole filmografia di Kechiche risiede nella lunghezza: a suo modo ancora concisa nell’adattarsi all’età umoralmente contratta o dilatata della preadolescenza (La schivata, 2003); venata di indugi quasi mitologi nei confronti di una quotidianità esotica (Cous cous – 2007); ridondante nelle sottolineature insistite di un commovente percorso di triviale annientamento (Venere nera – 2010); esasperatamente e inutilmente smisurata in La vita di Adele. Dove si ritorna in qualche modo a La schivata per almeno tre motivi: la premessa libresca, i primi passi dell’amore, l’intromissione della comunità al contorno nell’intimità dei singoli. Il riferimento letterario si rifà nuovamente a Marivaux non tramite il teatro, bensì grazie al romanzo La vita di Marianna,splendida analisi dei pieni e dei vuoti che la passione determina; prosegue con la fatalità e la predestinazione de La principessa di Clèves e si conclude con il sacrificio di Antigone, che muore ai bordi della giovinezza per aver osato sfidare il potere dell’autorità costituita. Ma mentre gli amori de La schivata erano ancora prove infantili che finivano come tempeste in un bicchier d’acqua solo perché altre sfide potessero iniziare, ne La vita di Adele si introduce il tema della seconda volta, resa asimmetrica dalla rodata scelta lesbica di una delle ragazze, mentre l’altra patisce la rivelazione delle proprie inclinazioni, fino ad una capitolazione che non si configura come un esperimento, ma come una fulminante determinazione della sorte. Intanto gli ambienti scolastici, genitoriali e amicali subiscono torsioni diverse, che trascorrono dall’ingerenza indebita, all’ignoranza, all’accettazione.
Adele frequenta il liceo, sa poco di quasi tutto ma ama i classici, è di un’esuberanza inconsapevole di labbra come di capelli, vorace nel cibo e ancora indeterminatamente tentata dal sesso, che prova senza convinzione con un compagno di studi. Emma è un’universitaria consapevole e seduttiva, frequenta i ritrovi gay, sfida il mondo con l’accettazione di sé e la non compromissione commerciale dei suoi quadri. Si vedono, si eleggono, si amano di un amore che è insieme una forza e un naufragio: la coppia è uguale a tutte le altre, il gioco dei ruoli fra dominante e dominata si impone al di là di ogni complicità saffica, spegne a poco a poco la passione, diventa ménage coniugale e lavorativo, esplosione di gelosia, separazione, impossibilità negli anni sia di dimenticarsi come di ritrovarsi, finché i titoli di coda annunciano una continuazione, mentre Adele diventa una straniera all’interno della sua stessa condizione, non diversamente dai vari migranti che Kechiche ha scelto come tema d’elezione, e che qui scompaiono dentro modernità borghesi o bohemien…. à suivre, e scommettiamo sul suicidio sofocleo.
Se l’anno scorso si portava cinematograficamente il lungo, quest’anno si balla aggiuntivamente anche il lento, con un ritorno al cinema verità – o realtà – che contraddice frontalmente la definizione di Hitchcock: “Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate”. Kechiche mette in scena la stessa operazione di Gloria (leggi recensione) avviluppata in una normalità minuziosa aggrappata alla fisicità e alla bravura straordinaria di due attrici quasi martiri, ma la dilata per tre ore esatte, imprimendo alla pellicola l’arbitrarietà di un tempo soggettivo inversamente proporzionale a quello dello spettatore. Nessuna ellissi viene concessa, ogni secrezione come ogni momento sono dettagliatamente sviscerati, l’azione è millimetrica e la durata del film copre alcuni anni che sembrano immersi in una successione spazio-temporale sempre uguale a se stessa. Si ricorre alla cornice letteraria per nobilitare una storia nota, la cui insistenza non tocca la realtà, ma la finzione demiurgica di un regista che attraverso l’eccesso sembra voler ri-fondare o addirittura creare un universo artistico dispoticamente solipsistico. Con dovizia di mezzi e di sensibilità sia tecniche che poetiche il cui insieme non conduce tuttavia all’effetto incantatore del Bolero di Ravel. Suonato su poche note appena variate, il film stupisce e sfinisce per l’accanimento della sua stessa precisione, spacciando come momenti di vita vera l’insistenza su esili particolari ricorrenti, dalla pastasciutta alle ostriche. Se si togliessero le due attrici in favore di una coppia etero, e non si giocasse in qualche modo sull’irruzione esplicitissima del sesso (che più è insistito – anche se non morboso – meno è cinematografico) rimarrebbe una funambolica impalcatura al posto del castello, anche se resa in modo mirabile dalle scenografie e dai continui passaggi della cinepresa dagli esterni della società agli interni della coppia. E lo stesso avverrebbe se la durata venisse spezzata in più puntate di televisione nobile. Quindi l’artificio impera, e anche evidente, meravigliosamente cesellato dalla recitazione e da un mestiere di prim’ordine, che tuttavia sembra innamorarsi di se stesso confinando gli spettatori dietro un vetro, per esplodere veramente solo nel finale, in cui all’iniziazione segue, come sempre, l’amarezza dolorosa dell’esperienza. Kechiche, Palma d’oro a Cannes 2013, vira alla trasposizione dell’esegesi settecentesca dei sentimenti, ma questo tipo di cinema senza trama non può permettersi le centinaia di pagine de La vita di Marianna e le migliaia di pagine della contemporanea Clarissa di Richardson, semplicemente perché l’immagine continua ad essere tutt’altra cosa rispetto alla parola.
LA VITA DI ADELE , di Abdel Kechiche , Francia 2013 , durata 179 minuti