LA PELLE CHE ABITO
La dolcezza insinuante, quasi midollare, del brano Petite fleur (1952) di Sidney Bechet a separare in due metà la storia, il cui racconto comincia dalla seconda per risalire fino alla prima. Si tornerà in seguito sul fatto ad aggiungere l’estrema agnizione, che arriva, appunto, all’ultimo secondo del film, quasi come un sigillo: l’unico momento di commozione tardiva in una pellicola che il regista Almodovar estrae di peso dal suo consueto bagaglio delle meraviglie, senza però mai riuscire a trasfigurarlo in repertorio artistico.
La trama (nonostante le trasposizioni cronologiche) è infatti più importante, più impegnata e più “ritagliata” del solito, con un andamento enigmatico che, se non la rende simile ad un thriller, cerca comunque di creare una sorta di suspence, che fagocita le invenzioni geniali e i cortocircuiti poetici a cui il regista ci ha abituato con le sue precedenti pellicole.
Gli ammiratori si scordino pertanto le indimenticabili sintesi figurativo-emozionali di Tutto su mia madre (1999) o le commozioni limbiche di Volver (2006) e si preparino invece a seguire le vicende di un folle chirurgo plastico che infrange le barriere dell’ammissibilità etica mediante avanguardistiche ricerche sulla pelle artificiale: a metà strada tra la scienza, la vendetta e l’interesse privato scritto in atti d’ ufficio. Resta il consueto armamentario di grovigli famigliari al limite dell’incesto, di disconoscimenti e riconoscimenti, di mutamenti di sesso e di personalità, pistole, bisturi, sangue – come a indicare le prigionie schizoidi e gli aneliti di liberazione generati dall’eterna antitesi tra spirito e carne. Ma privi di quella sorta di feroce e disperata allegria oltre le righe che in genere consente ad Almodovar di iscrivere i fatti della vita in fumetti mélo più o meno improbabili e grandguignoleschi, eppure sempre palpitanti di verità tenere e sarcastiche, ma in tutti i casi riconoscibili ai più.
Ne risulta allora un film congelato nella forma e forzosamente quasi banale nella sostanza, che ricorda, con minori alambiccamenti enigmistici, il plot chirurgico- e anche in quel caso algidamente fallimentare – di un altro grande e ancor più sofisticato regista, ossia il Peter Greenaway de Lo zoo di Venere (1985). Perchè in entrambe le occasioni gli autori sembrano devolvere a terzi la loro mancanza (o forse il loro eccesso) di ispirazione. Ne lo Zoo di Venere dominava infatti l’astrusità di citazioni di tutti i tipi, mentre ne La pelle che abito gran parte dell’estro è un omaggio a Louise Bourgeois (1911-2010). Non tanto e non solo perchè la grande e longevissima artista (scomparsa di recente) è palesemente e più volte citata mediante l’insistita inquadratura di un volume a lei intitolato, quanto perchè la sua opera sembra in qualche modo riassumere le ossessioni dello stesso regista.
Oltre che nell’eterogeneità dei materiali usati e alle relative, singolarissime tecniche di trattamento, Louise ricorre testualmente nei disegni che la protagonista femminile traccia sul muro, in forma di figure metà casa e metà corpo; così come le madri al centro e a lato della storia sono la perfetta sintesi dei suoi enormi “ragni possessivi” che ora si trovano in parecchi musei. Senza contare che l’intera poetica della sua opera percorre una via solitaria e anticonformista, attenta eppur irriverente nei confronti delle mode, sempre ispirata ad un passato privatissimo ma che non viene mai rinnegato: si vanno a toccare insomma le stesse corde dei registri almodovariani con il ricorso alla memoria, all’angoscia, all’erotismo implicito ed esplicito, alla trasposizione ironica, alla vitalità oltraggiosa…
Ora, è possibile che questi parallelismi poco importino al maggior numero degli spettatori. Come, del resto, non interessano più di tanto le psicanalitiche esegesi intorno al fin troppo trasparente simbolismo della mutazione di quella pelle che ci definisce e che tutti abitiamo, più o meno felicemente. Per tralasciare qualsiasi citazione di scienziati pazzi e di creature artificiali, in questo caso solo un larvato e strumentale accenno al mito letterario e cinematografico di Frankenstein.
Rimane il fatto che, sotto la crosta della forma, il film appare tra lo stonato, lo stranito e l’ingegnosamente gratuito, provocando così delle false attese al limite della noia. Non valgono, in questo senso, nemmeno la presenza di attori come Banderas e la Parades: il primo inizialmente di sorprendente eleganza carismatica e poi via via sminuito dallo svolgersi dell’azione; la seconda dimessamente marginale a beneficio di Elena Anaya – l’attrice giovane – incerta tra una sofferenza stilizzata di matrice quasi robotica e un’avvenenza secolare che, in compenso, non le lascia grandi spazi espressivi. Ognuno di loro ben lontano comunque da quel fortissimo anche se invisibile affiatamento che in genere permea felicemente tutti i cast del regista.
Resta da chiedersi, magari ingenuamente, quale sarebbe stata la valutazione del film se a girarlo fosse stato un autore meno importante: forse il risultato sarebbe stato di maggior sorpresa per la sapienza di certe inquadrature, il fascino inventivo della fotografia e l’irruzione di alcune maschere al contorno, quali, ad esempio, il ragazzo tigre. Ma, probabilmente, il giudizio risulterebbe lo stesso, solo con una maggiore indulgenza per lo sconosciuto e un minore apprezzamento per Almodòvar
LA PELLE CHE ABITO di Pedro Almodòvar, Spagna 2010 , durata 120 minuti