LA PAROLA E L’IMMAGINE
Nel 1955 esce Il lungo addio in cui Raymond Chandler affida al romantico e disincantato detective Marlowe la sua visione del mondo in forma di poliziesco ; nel 1969 i delitti della setta Manson segnano una svolta cruenta nella percezione della cultura hippie , nutrita di fiori , libertarismo e droghe ; nel 1978 John Milius dirige Un mercoledì da leoni , struggente film di giovinezza , di amicizia e di morte dentro le onde lunghe del surfing ; nel 2009 ( 2011 per l’Italia ) il problematico Thomas Pynchon pubblica Vizio di forma raccogliendo tutti gli elementi precedenti , per far rivivere almeno sulle pagine un’epoca ormai scomparsa . Ne risulta un racconto bronchiale , ramificato in mille derive che si perdono o ritornano su se stesse , lungo un’ agonizzante costa californiana anni 70 , inquinata dalla speculazione edilizia , dall’arrivismo feroce di professioni ufficiali o di copertura , da una corruzione delle forze dell’ordine che assurge quasi a modello filosofico , mentre colonie di nullafacenti fumati si trascinano velleitariamente alla ricerca di labili dis-occupazioni . Senza che il lettore capisca granchè , essendo il genere investigativo un capriccioso pretesto enigmistico per inscenare una nostalgia ossessivamente nutrita di tutte le figure , gli atteggiamenti , i marchi , i suoni e gli oggetti di un’epoca , come in una specie di asta del modernariato .
Paul Thomas Anderson è invece il firmatario di grandi storie classiche ( Il petroliere ,The Master ) con le cuciture , le tonalità , i bottoni e gli accessori sempre al punto giusto . Dunque il primo interesse del film non è tanto il confronto indebito con il libro da cui deriva , bensì sul perchè e sul come un regista antitetico ad un autore ne traduca e setacci il dettato sfuggente per convertirlo al cinema con altri mezzi , sapendo che c’è sì un personaggio , ma non c’è una storia perchè ce ne sono troppe che comunque non contano.
L’inizio promette bene: l’improbabile agente privato Doc Sportello , suggestivamente incarnato dalla trasandatezza cespugliosa di Joachin Phoenix , è una deriva formale di Philip Marlowe ma , tra canne e coca , sembra mantenere intatta una certa filosofica permeabilità alla vita . Interpellato dalla sua ex , amante in carica di un importante costruttore edile , si caccia in un intrigo che lo accerchia di coincidenze e di contraddizioni , mentre il regista pare incline a riassumere e mettere in ordine le fila di una narrazione volutamente frantumata dallo scrittore . Intanto la voce di uno spirito – guida funge da commento fuori campo non per chiarire , ma per mantenere il timbro del testo . Poi il plot si aggroviglia non diversamente dal libro , anche se vengono sacrificati tutti i cascami ambientali destinati a restituire la condizione di un periodo sepolto : la spiaggia è remota , le migliaia di differenti ritrovi diurni e notturni sono soppresse , le tavole da surf – un leitmotif che trascorre come le droghe – annegano nell’indistinto . Si smarrisce così , con pochi accenni sommari , tutta la densa scenografia romanzesca , volta a contrapporre l’incombente affarismo mafioso al libero esistere in casupole arrangiate per un’eterna estate .
Arrivato ormai alla metà , anche lo spettatore più testardo si arrende , consapevole dell’inutile sforzo di tenere dietro alla vicenda , più concentrata sulla fisicità dei personaggi che non sulle atmosfere e sulla concatenazione logica degli eventi . Non mancano le parentesi luminose di sentimentale delicatezza all’interno di situazioni devastanti anche se poco coinvolgenti : la corsa dei due innamorati sotto la pioggia , la visita alla moglie e alla figlia di un tossico ricattato sotto copertura ( un irriconoscibile Owen Wilson ) mentre Benicio del Toro e Reese Witherspoon fanno da rapido corollario alla figura piuttosto insignificante di Catherine Whaterston , che viceversa Pinchon descrive così:”Shasta poteva passare settimane senza far niente di più complicato di una smorfietta”.
Con un doppio happy end alquanto raffazzonato l’intenzione della scelta registica appare infine piuttosto chiara : sfidare un’irraggiungibile icona letteraria senza vincoli di trama , come se l’adattamento dell’archetipo fosse già di per sè una garanzia di eccellenza ; sacrificare il climax insistendo , come nelle sue precedenti opere , sui monumenti esteriori e interiori dei personaggi , che gli attori si chiamino Daniel Day Lewis , Philip Seymour Hoffman o Joachin Phoenix : grande recitazione di stampo retorico all’interno di decine di dettagli al contorno , dal deodorante sulla camicia e sui piedi sporchi di Doc alle fin troppo allusive banane gelate succhiate compulsivamente dal poliziotto Bigfoot…; denunciare l’inferocimento dei tempi , da quelli delle pompe di petrolio del primo capitalismo selvaggio ai contorcimenti freudiani di predicatori legati al dio denaro , fino alla parentesi disseccata di un’epoca ormai prossima all’edonismo reganiano . Con la conseguenza che il film risulta sicuramente deludente per il grande pubblico e poco seducente per i cinefili letterati , tanto più che in questo caso la parola di Pinchon si snoda anonima , quasi piatta , eppure densa di suggestioni già pronte per l’elaborazione cinematografica . Tralasciando la colonna sonora che sulla carta trascorre dappertutto , dai gruppi musicali agli spettacoli televisivi , e qui viene risolta con qualche suggestione country e un allusivo titolo di Neil Young : Journey throught the past . Il mestiere e l’impegno ci sono , ma non bastano all’unitarietà e alla credibilità complessiva di un’operazione ambiziosa che viceversa risulta appiattita sulla fonte e mortificata dall’assenza di trasposizioni o di un diverso valore aggiunto , a causa di troppe sottolineature marginali rispetto ad un latitante contesto di riferimento.
VIZIO DI FORMA di Paul Thomas Anderson , USA 2014 , durata 148 minuti