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LA CAVALCATA DEI MORTI

Gli investigatori seriali, si sa, non invecchiano; ad eccezione di uno dei migliori in assoluto, il Pepe Carvalho di Manuel Vasquez Montalban, in grado di piegarsi di volta in volta al peso del tempo. Ma ormai è morto con il suo autore. Mentre Salvo Montalbano denuncia appena i segni dell’età sdoppiandosi talvolta in due personalità dialoganti, quella antica e giovanile e quella più matura; ma, appunto, per deboli accenni camillereschi.

Niente di tutto ciò per il nostro commissario Adamsberg, che ritroviamo tale e quale in vista del rinnovato appuntamento con le sue gesta, puntuale come sempre per le imminenti vacanze.
Certo, non lo avvolge più la mai distrattamente dimenticata fidanzata Camille, donna in perenne fuga, sostituita da un improbabile figlio ventottenne : sbucato dal nulla in base ad un errore del passato, e qui meramente funzionale alla trama, anzichè alle sfaccettature psicologiche del commissario più amato dalle donne, appunto perchè concepito da una donna.

La verità è che i personaggi possono rimanere sempreverdi finchè si vuole, ma sono gli autori ad invecchiare al posto loro, sia in ragione dell’inesorabilità dell’anagrafe, che, probabilmente, dell’usura da cottimo cui li sottopone – con la loro complicità – un’industria editoriale sempre più attenta al botteghino. Quasi certamente trasformando i protagonisti seriali negli aguzzini dei loro stessi autori.

In questa nuovissima avventura appena sbarcata nelle librerie , ci ritroviamo in una trama a tenaglia: da un late l’omicidio per incendio della sua Mercedes di un superbo tycoon parigino; dall’altro il solito ripristino di una leggenda antica di matrice medievale qui riferita alla “Schiera furiosa”, una masnada di cavalieri putrefatti che ghermisce i mal viventi, svelando agli altri il senso delle loro invisibili porcherie, al fine di ripristinare una sorta di giustizia terrena? celeste ? infernale? Non interessa più di tanto: la costruzione del disegno è abile, attentamente studiata, abbastanza coinvolgente, nonchè scevra dagli eccessi barocchi di Un luogo incerto (2010). E, in fondo, non ha importanza se il finale non naufraga in un parossismo di incredibilità truculenta, bensì per la prima volta in una sorta di adattamento ad una realtà villaggesca, quasi preso di peso dalla miss Marple di Agatha Christie.

Quello che conta è l’evidente diluizione delle caratteristiche scrittorie di un’autrice che , per le sue qualità, potrebbe – o avrebbe potuto – puntare ad un posto di rilievo nella classicità delle moderne Belle Lettere. Perchè alcuni degli elementi che da sempre l’hanno distinta dagli altri autori di genere ci sono ancora: la matrice erudita dell’ispirazione, la capacità di inventare personaggi anche secondari di assoluto spicco letterario – si veda la magnifica sustanziazione del banditore bretone in Parti in fretta e non tornare (2001) – la commovente tenerezza di animali al contorno che valgono drammaturgicamente ben più di molti cristiani – dal gatto Palla al meticcissimo cagnetto Coupidon – la qualità della parola, che meglio ancora si afferra leggendola in lingua originale. Eppure qui tutto accumulato un po’ straccamente, quasi per automatismo, in una sorta di inaridimento dell’indomita vitalità che ha sempre contraddistinto questa autrice, indipendentemente dalla maggiore o minore felicità delle trame stesse.

Siamo quindi dalle parti dell’applicazione di schematismi, al massimo con la voglia di continuare ad autosfidarsi per mantenere l’originalità del plot, comunque sempre godibile: ma senza quella prosa ardita, capace di coniugare sottigliezze balzacchiane con linguaggi famigliari, professionali, tecnici, affettivi, unendo l’argot alla purezza del fraseggiare colto e riflessivo, dando alle situazioni e ai personaggi una propria caratteristica voce.

Personaggi un tempo descritti con pochi tratti, immersi per accenni in un’atmosfera che li definiva e li completava, delineati sia psicologicamente che fisicamente in base a quello che dicevano e ad alcuni caratteristiche comportamentali. Sempre perfetti, sempre originali, sempre convincenti, con piccoli tic , manie , modi di dire e soprattutto di pensare che li rendevano indimenticabili. Con un’ironia che inchiodava ma conservava al tempo stesso sempre un tocco di bonarietà e di umana partecipazione.

Mentre oggi siamo dalle parti di asettiche ripetizioni: la massiccia e rassicurante presenza di Retancourt, la complessità caratteriologica di Danglard, che ormai scioglie l’erudizione enciclopedica solo in vista dell’ ennesimo bicchiere di bianco, la svaporata attenzione di Adamsberg, le cui soluzioni emergono sempre dagli abissi come dalle nuvole, magari dopo aver fissato per ore l’immobilità di una mucca normanna. Coazione a ripetere , si direbbe. La stessa dei lettori, in fondo, abituati ad un appuntamento sotto l’equivalente estivo di un qualsivoglia ombrellone, e comunque ancora più che dignitosamente intrattenuti. Ma le narratrici di racconti invecchiano e noi con loro. Incerti se mantenere la stessa richiesta della stessa storia, a mano a mano svuotata dal tempo, o viceversa aspettarsi e pretendere qualche cosa di diverso, ma all’interno delle trascorse magie di scrittura e di intrattenimento di pregio.

LA CAVALCATA DEI MORTI di Fred Vargas, Einaudi Stile Libero, 2011, 428 pagine, 19 euro

CONSIGLIATI, da leggere o da rileggere, della stessa autrice:

Un po’ più in là sulla destra, Io sono il tenebroso, L’uomo dei cerchi azzurri, L’uomo a rovescio, Parti in fretta e non tornare, Nei boschi eterni, Sotto i venti di Nettuno, Scorre la Senna.

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