KILL ME PLEASE
Uno splendido castello fra la neve e in primo piano alberi scheletrici a frastagliarne le geometrie severe. Come in quelle cartoline “artistiche” che sempre più raramente si ricevono. Sul retro non ci sono i soliti saluti, ma degli estremi saluti. Perché di nuovo di morte si parla, dopo i recentissimi film di Woody Allen (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni) e di Clint Estwood (Hereafter). Ma questa volta lo si fa con un budget bassissimo, un bianco e nero ossessivo, e, soprattutto, con una scommessa frigida, costruita a tavolino. Scommessa vinta secondo l’ultimo Festival cinematografico di Roma che lo ha premiato come miglior film, e persa per noi – evidentemente animali poco festivalieri, dato anche l’assoluto disaccordo con il verdetto di Venezia a favore del Somewhere di Sofia Coppola.
Dunque, il castello, che nella sua inaccessibile particolarità è evidente emblema di separatezza dal resto del mondo e che ricorre spesso durante tutta la pellicola, calando di volta in volta come una quinta a identificare l’impianto teatrale dell’insieme. Dovremmo essere nel centro Europa, in una clinica dove si pratica la morte assistita. E, dentro la clinica, il dottor Kruger, medico pacato dedito ad uno scopo eminentemente sociale: aiutare chi lo desidera a compiere il fatale passo, possibilmente previ tentativi di dissuasione o, alla peggio, espressione di un ultimo desiderio.
E, dentro le stanze, nei corridoi, nei percorsi esterni anch’essi chiusi dal gelo come strettoie – come “quella” strettoia – una manciata di pazienti più o meno desiderosi di trapassare. Finché la morte, come nei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, ne sostituisce dall’esterno l’autodeterminazione, con le inevitabili inutili ribellioni del caso. Ma non si pensi a nessun tipo di suspense, ché l’assunto del film è un altro: ossia il parallelismo fra la voglia di restare e quella di andarsene, che si frantuma ondivago nelle coscienze dei più.
Da questo scontro, tanto reale quanto assurdo, vorrebbe nascere il presunto feroce sarcasmo del film. Che, partendo da un tema serio e sacrosanto come l’esercizio della volontà almeno sulla propria morte (visto che della propria nascita non si è responsabili), si fa da ragionevole a parossistico, fino a ribaltarsi in un macello finale. Alternando piccole pateticità e brevi accenni commossi con momentanee perdite di senso – visto che fra morituri tutto dovrebbe essere permesso. Mediante personaggi improbabili o comunque al margine della norma, alle cui storie, atteggiamenti, interazioni, ossessioni, capricci, tic dovrebbero essere affidati i momenti esilaranti o sconvolgenti.
Invece non si ride, non si sorride, non ci si commuove e nemmeno ci si turba di fronte a scene volutamente grandguignolesche. Perché tutto è quasi ingegneristicamente programmato per essere così. Così come? Ma stupefacente, ironico, surreale, disturbante…Gli aggettivi della critica in questo senso si sono sprecati. A nostro avviso rotolando vuoti come barattoli a fronte di un’operazione già vista ma contrabbandata per nuova. Anzi, più che nuova, all’avanguardia sia del pensiero che della espressione creativa. Invece il retrogusto che subito abbiamo avvertito non riguarda i tanto citati film di Marco Ferreri (di ben altra originalità e stravaganza), bensì quello di certi intellettualismi onanistici anni sessanta, programmaticamente rivisitati con spirito pulp. Anche questo ormai già abusato.
Ciò non toglie che il regista sappia il fatto suo in certe invenzioni come in alcune sequenze. Né che la fotografia, la scenografia e gli interpreti conoscano il proprio mestiere. Ma di sapienza e intelligenza talvolta si muore, e neanche assistiti, soprattutto quando ci si propone di rendere profano il tabù del sacro. Operazione legittima, auspicabile se si riesce a trovare ancora qualche cosa di non ancora violato, a patto di saper prendere la mira. Invece questo sembra essere un film che dissangua di contenuti i temi che tocca, provvedendo ad esternalizzarli in una sorta di gioco né macabro né divertente, in cui la commedia non riesce e la tragedia viene spesso resa grottesca, pur di stupire per eccesso di infrazioni. In omaggio alla contaminazione dei generi a sua volta ormai un genere in vendite sulle bancarelle, e a discapito della partecipazione e della riflessione.
Gelo in sala, freddo fuori, respingimento al mittente della cartolina “artistica”, e tre giri di sciarpa per confortarsi di un’ora e mezza di assoluta inappetenza.
KILL ME PLEASE di Olias Barco, Belgio Francia 2010, durata 95 minuti