JULIETA
Volendo dimenticare ( e si deve ) l’ispirazione novellistica di Alice Munro , si potrebbe pensare di essere dalle parti di Maria De Filippi : contorsioni familiari , segreti nascosti che non sono veramente tali , inconsapevolezze diffuse , colpe vere o presunte che vanno e vengono , per continuare a ritornare come una nemesi che nè compensa nè distribuisce giustizia , perchè non si presuppone un equilibrio tra il male e il bene , bensì l’apprendimento attraverso il dolore diretto e non raccontato .
Dopo le due ultime prove , una deludente ( La pelle che abito ) l’altra disastrosa ( Gli amanti passeggeri ) Almodòvar riacquista un equilibrio narrativo , anche se non riprende gli ultimi grandi fasti di Volver per un eccesso di bilanciamento fra scrittura e immagini , dando la sensazione di volersi interrogare a tema sulla lacerazione di un rapporto madre – figlia , senza quell’esperienza diretta del femminile cui si devono tanti momenti irregolari e alti della sua filmografia .
L’ispirazione e lo svolgimento sono molto letterari , ulteriormente imbrigliati dal classicissimo schema della voce narrante fuori campo , che spesso provoca sciagure al cinema , essendo un espediente estraneo alla sua specificità . In Julieta tuttavia non ci sono disastri , tutto scorre fin troppo consequenzialmente a levigare il dramma secondo una sorta di pentimento da eccessi , come se l’armonia si sostituisse alla creatività , stirandone le pieghe e rammendandone gli strappi .
Senza disturbare nè annoiare , la vicenda si svolge a partire da un treno in corsa , dove il rifiuto di una ragazza non provoca , ma casualmente incrocia il progettato suicidio di un uomo in cerca di un’ultima compagnia . E sul quel treno , metafora del viaggio esistenziale , la protagonista diverrà madre ( eros e thanatos ) legandosi ad uno sconosciuto che in seguito sposerà , inconsapevolmente favorita da una prima morte . Per poi schiantarsi su quella del marito , dopo anni felici ed una figlia adolescente . Che a sua volta , misteriosamente , l’abbandonerà senza una parola ( il titolo originale è Silencio ) lasciandola in balia di interrogativi privi di risposte . Cercherà inutilmente di ricostruirsi una traiettoria , salvo essere successivamente salvata da un’altra morte , avendo appreso da un’amica inferma il senso del misterioso allontanamento . E da una sodale della figlia quello che sempre le madri nemmeno sospettano . Mentre altre donne malate sono sostituite da giovani donne sane , perchè gli affetti si congelano e poi si sciolgono quando la vita deve continuare , essendo la morte arbitro , maestro e motore .
I vari momenti si sovrappongono e si inanellano , dando addirittura la sensazione che l’intero film proceda per inquadrature simili ai finestrini del primo treno che , scorrendo , simulano l’avvicendarsi dei fotogrammi della pellicola . Interpretata da attrici diverse nei differenti momenti temporali , forse per sottolineare la sostituibilità degli individui di fronte a dilemmi che possono toccare tutti , forse per evitare l’invecchiamento progressivo di un unico soggetto , che è un’ altra delle iatture del cinema , nonostante il trucco abbia raggiunto vette stellari .
Le suggestioni sono poche e molte insieme : il racconto è sì nitidamente composto , ma tenta spesso strade laterali e spunti aggiuntivi che poi si perdono , troppo assorbito dai marchingegni delle domande e delle risposte che rasentano il thriller-mélo intimista senza caderci dentro , perchè le motivazioni dei personaggi sono tanto banali da risultare meramente soggettive . Quasi a voler significare che anche gli affetti più intimi sono segnati da un’inconoscibilità dell’altro che provoca conseguenze inimmaginabili . E qui si inserisce l’inconscia intimidazione propria degli autori comunque definitivamente consacrati , che genera sia attese che fraintendimenti o sopravvalutazioni .
Il retorico abbinamento tra il rosso Almodovar ( Pantone 185 ) e il blu elettrico ( Pantone 286 ) è una mera scelta di gusto , oppure un occulto gioco di simbologie tra l’eccesso di luminosità da sovraesposizione e la pacatezza di arredamenti bianco – grigi con conati di design ? La centralità dell’assunto riguarda il vivere deprivati di quelli che si amano , la trasmissibilità delle colpe vere o immaginate , oppure la casualità del fato in forma di ereditarietà biologica ? Si tratta di un titolo dolce e sobrio , ovvero di un dramma cupo e disperato ? E via di punti interrogativi , per l’ansia di dover assolutamente cogliere spessori e ispirazioni che forse non sono poi compiutamente tali , nonostante ripercorrano diversamente le ormai mitologiche ossessioni dell’autore .
Quello che abbiamo visto noi è un prodotto medio di nobili intenzioni un po’ stanche , facilmente fruibile , confezionato crepuscolarmente sotto specie di fotoromanzo , con qualche taglio emotivo e tecnico convincente , che potrebbe essere stato firmato anche da altri . Senza generare pensosità profonde nè trasalimenti commossi .
JULIETA di Pedro Almodòvar , Spagna 2016 , durata 99 minuti