J.EDGAR
“Gli storici scrivono della storia al presente, tralasciandone la contestualizzazione”. Accettabile o meno, l’affermazione enunciata nel film potrebbe rappresentare la traccia che ne ha guidato la realizzazione ,in precario equilibrio tra “il retaggio di un uomo e l’onore di una istituzione”.
Certo, l’argomento non era facile: da un lato, quasi quarant’anni di epopea degli Stati Uniti, da Coolidge a Nixon. Dall’altro, la nascita di un FBI “moderno”, dotato di sistemi di identificazione e di metodi investigativi organizzati e scientifici, basati sulle prove come sulla contraffazione tecnica delle medesime. Infine la lunghissima, scontata solitudine di un numero uno, tra ricostruzioni arbitrarie e illazioni psicologico-interpretative di matrice romanzesca.
Ora, perchè si continua a riscrivere la storia? Spesso per far luce sulle tessere tralasciate o non combacianti di un mosaico; oppure, per fornire una interpretazione riveduta e corretta dei fatti, approfittando di distanze epocali a loro volta comunque influenzate dallo spirito del tempo di appartenenza dello storico, che magari investiga sugli elementi che, in nuce o in parallelo, possono rappresentare e spiegare alcuni degli sviluppi successivi. O, ancora, per narrare semplicemente una storia nella Storia, con tutte le implicazione e le scelte narrative che l’operazione comporta. In questo caso, il regista e e lo sceneggiatore Dustin Black hanno optato per il compromesso diligente della non scelta fra le possibili opzioni, affastellando metodicamente di tutto un po’. Ne risulta una pellicola neanche livida – che sarebbe comunque una tonalità,se non un colore -bensì frigida, svuotata di consequenzialità precise come di comunicatività emotiva.
La scena si apre sull’età di Bob Kennedy, altalena per oltre due ore avanti e indietro nel tempo con abbondante uso – se non abuso – di flash back, comunque inusitatamente comprensibili, e si chiude (senza saper finire) sul tramonto di un uomo e di un meccanismo poliziesco efficienti nel bene come nel male. In coincidenza c’è l’elezione di Nixon, ossia l’avvento di un altro modo di barare istituzionalmente, posponendo l’interesse privato e individuale al credo collettivo di una nazione, da tutelare a qualsiasi costo, dai nemici veri come da quelli presunti.
Con una forma di fanatismo in cui si alternano buona fede, doverismo, paranoia, egotismo, potere, di volta in volta puntati contro la minaccia comunista, la malavita organizzata, l’insofferenza razziale, la criminalità spicciola. Che la fa da padrona con la scelta di soffermarsi a lungo sul rapimento e l’uccisione di Baby Lindbergh, figlio del famoso trasvolatore oceanico, uno dei primissimi affaires di risonanza mondiale. Nel contempo, si dà conto, seppur marginalmente, della riorganizzazione del Federal Bureau of Investigation, ereditato debolissimo nel 1924 da un John Edgar Hoover quasi ragazzo, e poi portato fino ai fasti e nefasti dei primi anni Settanta grazie all’addestramento permanente degli agenti, all’introduzione di un immenso archivio di impronte digitali, alla creazione di veri e propri laboratori scientifici, per non parlare dei dossier spionistici sulle abitudini intime di tutti i personaggi che contano. Intrecciando al florilegio dei fatti gli eventi inesistenti della vita di un uomo tanto enigmatico da apparire sempre identico, privo di una storia privata ufficiosa od ufficiale, se si eccettuano il lavoro, l’ossessione materna e la presunta inclinazione amorosa nei confronti del suo vice.
Narrata in prima persona dallo stesso protagonista che detta le sue memorie (quasi a voler scaricare la responsabilità di ogni interpretazione alternativa) la vicenda si snoda con impegno ma senza slancio, senza un punto di vista preciso, ricorrendo anche ad inserti filmici tratti con scarsa congruenza dal Nemico pubblico con James Cagney(1931). Un collage di ibridazioni incerte, seppur sorrette da un comprovato mestiere, che dice poco sugli spezzoni di un lungo periodo disuguale, ancor meno sull’uomo (particolarmente goffi gli accenni sentimentali) e oscilla dubbiosa tra i prodromi e le conseguenze attuali di una forma mentis, se non una cultura nazionale.
Il peccato più grave è che non presenta neppure nessuna magia filmica, nessuna angolazione o scelta drammaturgica originale, nemmeno nel modo di approcciare le scene come di fotografare le immagini, accompagnandole almeno con una musica coinvolgente. Il protagonista Leonardo DiCaprio viene ricollocato nella scia risaputa di una già ricca filmografia hooveriana, che parte da una serie televisiva del 1987 per approdare ai giorni nostri. Truccato e invecchiato in maniera improbabile come il suo presunto amante, Leonardo si candida a quegli Oscar assegnati automaticamente ai belli e coraggiosi nell’imbruttimento fisico: anche la sua interpretazione è in sintonia con la levigata asetticità del film, che si sospetta presentarsi semplice e in fondo piattamente lineare per l’assenza di un vero fervore artistico.
Fervore che forse vorrebbe ispirarsi all’afflato civile e morale che permea tante opere di Clint Eastwood, tese a rappresentare da varie angolazioni la dolente ambiguità del mondo, ma che, almeno in questo caso, ci sembra produrre una prova ambiziosa e fallita su un enigma storico e personale che in fondo rimane tale, seppur trattato con sobria e noiosa abnegazione: nè inventiva, nè didascalica, nè politica.
J.EDGAR di Clint Eastwood, Usa 2011 , durata 137 minuti