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IL TEMPO CHE CI RIMANE

Nazareth, circa 2000 anni dopo. Viene proclamato lo Stato di Israele, che ingloba sia gli ebrei sia quei palestinesi musulmani che, decidendo di non abbandonare la propria terra, di fatto accondiscendono ad essere una minoranza ribelle. Minoranza sopportata e sorvegliata con tolleranza o ferocia nel corso di circa sessant’anni: dalla presa di Nazareth, appunto, nel 1948, alla guerra del Kippur, fino ai giorni nostri.

Tuttavia, questo non è propriamente né un film sulla guerra, né una presa di posizione politica a favore di una parte dei contendenti. E’, come dichiara fin dall’inizio il bel titolo, un film sul tempo, che cambia e ingoia lentamente i protagonisti. La vicenda segue la storia della famiglia del regista stesso, dalla sua infanzia alla maturità, secondo un percorso che ogni tanto ritorna su se stesso, fino a chiudersi come una collana. Intorno ad una verità banale: solo la pace può essere una soluzione. C’è già il tempo che si incarica di sconfiggerci, senza la necessità che gli uomini si oppongano gli uni agli altri.

Nessuno sconto affettivo e nessuna voglia di conciliazione a tutti i costi, ma una straniata sublimazione, che si allontana dalle ragioni e dai torti degli uni e degli altri, attraverso una sceneggiatura minimale e iterativa, ma soprattutto grazie ad un modo straordinario di usare la macchina da presa. Fissa, frontale, imparziale nella luce e nell’ombra degli esterni come degli interni, che talvolta, attraverso dei semplicissimi riflessi ottici, sembrano rientrare gli uni negli altri.

Mentre il paesaggio ricorda tanta pittura italiana illustre (vedasi per esempio Bellini o Mantegna sul tema dell’orazione nell’orto del Getsemani), gli arredi e le suppellettili che scandiscono gli spazi famigliari si sovrappongono gli uni agli altri attraverso l’utilizzo di quinte scalate, che trasmettono ai personaggi il senso di un’ospitalità precaria. Gli umani invecchiano fino a sperdersi in se stessi e gli oggetti invece sopravvivono immutati, vere tracce sempre riconoscibili che consentono di seguire il percorso di una famiglia come di un’epoca.

Tutto questo con tanto di canto e controcanto, di chiari e scuri e di un particolare uso del controluce che scontorna i profili come il tremore della calura estiva. Secondo richiami, sapientemente semplificati, alla pittura dell’americano Edward Hopper, che viene rivisitato non tanto da particolari arguzie o ironie, bensì da un’assorta, fissa comicità, che non conduce al sorriso, ma ai nonsense e ai paradossi dei quadri di Magritte.

Così il domestico sta accanto all’aulico, la ferocia accanto alla pietà, il civile accanto al sociale, il famigliare incrociato ed opposto al militare; mentre la musica a bordo delle auto – così forte da cancellare il rumore dei motori – si incastra in una colonna sonora che sgorga ogni tanto da lontano, a sottolineare alcuni passaggi chiave. Come nella scena del coprifuoco, durante la quale soldati israeliani armati intimano ai loro coetanei palestinesi di uscire dalla discoteca. E mentre il megafono amplifica minacciosamente l’ordine, le teste dei musulmani e quelle degli ebrei dondolano giovani al ritmo della stessa musica.

Musica araba che si alterna ai lunghi silenzi del paese semideserto o del regista-protagonista, che guarda con occhi fissi scene altrettanto fisse. Come se questa forzosa immobilità, che non ha tuttavia nulla di artificioso, fosse l’unica chiave per comprendere e non dimenticare, il solo viatico per opporsi ai tempi che ci travolgono immemori.

Un bel film, che usa il reale ed il metaforico secondo un impasto dosato e originale senza mai scadere nel forzosamente artistico, con un’abilità che nasce non dal virtuosismo, bensì dal cuore e da un dosatissimo ed accurato mestiere. E che potrebbe infine meritare di più, se non si perdesse talvolta in una sua stanchezza labirintica, con qualche ripetizione o sottolineatura di troppo. Da seguire fin dall’inizio senza preoccuparsi di capire il cosa, il chi, o il come, annaspando nella Storia, ma abbandonandosi con fiducia al percorso di tre generazioni di patrioti, non integralisti.

IL TEMPO CHE CI RIMANE di e con Elia Suleiman, Gran Bretagna Italia Belgio Francia 2009, durata 105 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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