IL SOSPETTO
I convegni amical famigliari sono l’ossessione di Thomas Vinterberg, che vi ritorna circolarmente a partire da Festen (1998) passando attraverso Riunione di famiglia (2007) fino ad approdare appunto a Il sospetto: lo si direbbe una sorta di avvento che precede il Natale, contemplando nel contempo la passione dell’uomo che si fa capro espiatorio della comunità, ma senza la certezza di una Pasqua di resurrezione, poichè si rimane dalle parti del secolare e non del divino.
Appartenente al movimento Dogma 65, il regista condivide con Lars Von Trier il proposito di purificare il cinema non solo da qualsiasi effetto speciale, ma anche da ogni lusinga al contorno, quale, ad esempio, la musica di accompagnamento: qui illustra il destino di una piccola comunità che si coalizza intorno ai due estremi dell’Uomo martire e del Gesù Bambino senza innocenza.
Ma visto che Sartre sosteneva che non c’è vittima senza colpa, qual’è la macchia del protagonista Lucas? Quella di essere non solo qualsiasi, ma di coltivare senza saperlo una sorta di serenità buona che lo apparenta alla lontana al principe Myskin de L’Idiota di Dostoevskij. Potrebbe forse ambire ad un mestiere più adulto, invece si accontenta di stare con i bambini come assistente di asilo, con le mansioni di farli giocare e mangiare, di vestirli e svestirli, di pulire loro il sedere: popolare e amato da tutti, forse perfin troppo dalla piccolissima Klara, che se ne innamora con quell’ambiguità affettivo-sessuale che gli adulti immemori rimuovono per imbarazzo dall’infanzia, votandola aprioristicamente ad una innocenza e ad una inclinazione alla verità di cui viceversa non sempre dispone, in quanto età con il peccato originale già inoculato come un malefico virus.
Suggerito da un senso della colpa che ha le sue origini nella Genesi – ovvero quando Adamo ed Eva, messi alla prova, falliscono nella loro libertà umana apparentandosi a Dio, e nel contempo si scoprono nudi e se ne vergognano perchè alla vista si affianca una diversa consapevolezza dell’intenzione – il film non ha però il coraggio o l’ambizione di ruotare intorno alle nordiche domande bergmaniane sull’essenza e sulle ragioni del Male. Anzi, sembra voler trattare un caso scabroso di presunta pedofilia quasi esclusivamente sotto il profilo dell’allarme e della ipocrisia sociale di un anonimo quanto esemplare conglomerato, pronto alla esorcizzazione e alla difesa mediante un processo sommario,la cui caratteristica è l’immediata espulsione del germe attraverso un percorso di reificazione salvifica che assolve i più grazie alla gogna esemplare del singolo.
Per poterlo fare, abbassa la ferocia dei toni di Festen (teso a svelare le miserie dell’alta borghesia attraverso la demolizione freudiana del pater familias) e mette in scena la medietà di un villaggio danese in cui si va a caccia, a messa o al lavoro, ci si riunisce gli uni presso gli altri a bere e a cantare,con qualche incursione legittima o disinibita nel sesso fra maggiorenni. Fino al momento in cui la biondissima Klara si vendica e inventa…e sia i grandi che i piccoli si suggestionano al punto da non sapere o volere distinguere il vero dal falso.
La semplicità apparente con cui la storia si svolge non deve tuttavia trarre in inganno: il film è minuziosamente calcolato in tutti i suoi risvolti, al punto da perdere in parte proprio quella spontaneità che vorrebbe esprimere sotto la sua forma quasi documetaristica, non priva di una vena poetica. Sì che il tabù stridente dell’argomento scorre quasi oggettivamente all’interno di una caccia all’uomo non esente da un’ambigua riabilitazione finale, che è il colpo di genio del film insieme alla recitazione del protagonista Mads Mikkelsen – lui sì umano e naturale fino all’assoluta inconsapevolezza del proprio notevole fascino.
Il racconto si chiude su una scena magari vera, o, presumibilmente, immaginata: la colpa contamina anche l’innocente riconosciuto, che ormai non è più tale poichè l’esperienza del danno vanifica ogni spontanea naturalezza; non solo, ma gli aguzzini, acclarato il proprio torto, dispongono di una ragione in più per continuare ad odiare la vittima.
Tuttavia l’argomento alto, trattato con voluta sobrietà,meglio si presta all’apologo sociale che non al dramma esistenzial-biblico, privando lo spettatore sia di domande sottili come di turbamenti intensi. Rimangono l’attenzione sofisticamente artigianale all’ordito e alla trama e un che di programmatico e irrisolto che inibisce al film le vette qualitative toccate dall’ attore protagonista; il regista non le raggiunge perchè organizza una scalata di intelligente esperienza ma senza rischi,priva di quella ispirata originalità capace di raggiungere le profondità della mente o di colpire emotivamente al cuore.
IL SOSPETTO di Thomas Vinterberg , Danimarca 2012 , durata 115 minuti