IL LATO POSITIVO
Almeno tre plausibili ragioni per non scartare la visione di questo film: compensare l’introvabile risvolto favorevole di questo nostro momento storico, perché la speranza è un rischio molto umano che bisogna comunque correre, nonostante i suoi costi; delibare la forza temperamentale della bella Jennifer Lawrence, già evidente a partire da Un gelido inverno nonchè premio Oscar 2013 come migliore attrice protagonista; constatare come una tradizionale storia d’amore possa essere tecnicamente riscritta con garbo non stucchevole, spostando il punto di vista e gli ingredienti al contorno.
Le componenti classiche sono tutti presenti: la veloce radicalità delle donne, magari incerte sulla trama, ma geneticamente orientate al pragmatismo della soluzione, mentre i maschi brancolano a lungo inconsapevoli come gli orsi dei tiro a segno; la lunga cristallizzazione del pensiero, che rende il conseguimento del desiderio degno di una remunerazione sentimentale duratura; gli equivoci interni ed esterni alla futura coppia, sia sotto forma di percorso psicologico a due sia di contrappunto corale degli altri protagonisti, funzionali in termini di ostacoli o di facilitazioni allo scontato compiersi del lieto fine.
Lui è Pat, affetto da un presunto disturbo bipolare che ha messo in crisi il suo matrimonio, avendo malamente reagito al tradimento della moglie alla quale spera di ricongiungersi dopo essere divenuto “un altro uomo”. Lei è Tiffany, giovane vedova altrettanto psichiatricamente frastornata, che ha replicato al lutto con una promiscuità onnivora. Entrambi sono accompagnati nella vita quotidiana da figure invasive e comicamente sofferenti, a tracciare il solito invisibile perimetro della cosiddetta normalità. All’interno – o esterno – si agitano un padre allibratore, compulsivo come e più del figlio, nonché sfegatato tifoso della squadra dei Giants; una madre, abile amministratrice di omissioni come di intrusioni, che confida sempre nel colpo segreto dei salatini al granchio; un fratello maggiore, pretesto freudiano di ogni scompenso dell’età adulta, e amici o parenti vari che di volta in volta avvalorano o smentiscono il vecchio adagio che recita “se cerchi una mano disposta ad aiutarti, la trovi alla fine del tuo braccio”.
La regia di David O. Russell conferma una predilezione per l’itinerario di due figure centrali all’interno di una comunità provinciale, a sua volta riassunta in un nucleo debordante e variopinto, dove tutti si fanno gli affari degli altri in nome di una sacralità nostalgica della liturgia familistica. Con esiti alterni, affidati sia agli episodi come ai dialoghi, in cui la puntualità e la verve non mantengono sempre lo stesso ritmo, sulla base di dilatazioni romantiche e di dilugamenti descrittivi che talvolta spezzano la deliberata scelta dell’impasto drammatico-brillante e della cifra realistico-fiabesca. I temi al contorno sono seri, il modo di trattarli cordialmente irriverente, l’attenzione ai dettagli anche minimi quasi spasmodica, in una riedizione un po’ pallida della sicura tradizione americana della commedia di genere.
Trionfano le citazioni (dall’Amleto del “C’è del metodo in questa follia” alla Jennifer Beals di Flashdance) buttate lì come un ammicco a cui non si crede sino in fondo, e l’espressività degli attori, che riporta De Niro non solo ad un ruolo finalmente dignitoso, ma anche alla conferma scientifica che il naso e le orecchie sono gli unici organi del corpo umano che continuano a crescere fino alla morte. Intonati anche tutti gli altri interpreti (tra cui il co-protagonista Bradley Cooper) sufficiente l’ambientazione, diligente la fotografia. Accattivante l’orecchiabile colonna sonora, inanellata di grandi classici, su cui s’ impone Johnny Cash con la celebre e struggente Girl from the north country.
Che cosa manca? Innanzitutto la compattezza, che caratterizza la prima parte del film rispetto alla seconda, sia sotto il profilo della creatività che della concisione. Poi il coraggio – o il genio -di osare di più in termini non di soggetto ma di percorso, con un “virgolettato” diseguale e incerto sul prendere o meno seriamente la retorica del gruppo, l’ottimismo della volontà, il mito americano della seconda occasione. Tutti elementi, insieme alla “diversità” mentale, tesi ad imprimere sì un’atmosfera, ma secondo un afflato ondivago, tale da apparentare il film ad un presepio di figurine abilmente stondate, secondo un’artigianalità amatoriale che tuttavia non riesce a trasformarsi in arte: una pellicola imperfetta ma appetibile come una cioccolata con panna, consolazione di giornate piovose, cui si può rinunciare grazie a due ore di lieve intrattenimento, magari a scorno delle papille ma con sicuro vantaggio del girovita.
IL LATO POSITIVO di David O.Russell , Usa 2012, durata 117 minuti