GLORIA
C’era una volta in Francia – primi anni sessanta – il sociologo Edgar Morin che coniò il titola di cinema verità riferendosi a quelle pellicole capaci di “superare l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, vere come un documentario… ma con il contenuto romanzesco di una vita soggettiva”. Tralasciamo l’evoluzione successiva della teoria e i suoi prodotti – spesso di tipo “militante” – con la macchina da presa a spalla in cerca di una realtà da provocare, e ricordiamo che c’era un’altra volta in cui si definiva l’adolescenza come un’età ingrata; solo che oggi, con l’allungamento della vita media, verrebbe da chiedersi ingrata di che, visto che i giovani hanno di fronte le praterie almeno teoriche della lusinga, senza ancora l’amarezza concreta delle verifiche. L’età ingrata diviene invece storicamente quella intorno ai sessant’anni, epoca lacerata fra l’inedita insistenza su un passato che non può tornare e l’assenza di capitolazioni nei confronti di un futuro insolvente che continua a darsela a gambe.
Tra le adepte di questa resistenza ad oltranza si colloca Gloria, impiegata quasi vezzosa alle soglie della pensione, divorziata, sola, con due figli laconicamente distratti e ancora una gran voglia di vivere, di ballare, di scopare (e pazienza se si tratta di palpare cinti erniari e di respirare fiati guasti) sino all’ovvio incontro con un ometto sopraffatto dalla propria famiglia d’origine, che non vuole, non può o non sa condividere l’illusione di un prolungamento di aneliti psicofisici. Sicché lei, più forte e più indipendente, dopo alcuni volteggi di masochistica umiliazione, tornerà a ballare da sola, con i segni di ulteriori disincanti lungo il costato.
Imperniato non tanto sulla realtà, quanto sulla simulazione della medesima, il film parte e continua lentissimo, come la quotidianità che panneggia le grazie della protagonista, secondo il solito schema costruito intorno a un’attrice di strepitoso fascino interpretativo, sempre convincente e diversa ad ogni inquadratura. Schema già stravisto e supercollaudato, che tuttavia dà allo spettatore la possibilità di un’identificazione diretta, anche se il trucco c’è, e lo si scorge tra i tanti dettagli di significante banalità, conditi con dialoghi calibrati intorno alle sottrazioni o al vuoto di esistenze che l’anagrafe, contabile fiscale, comincia a depennare loro malagrado. E il trucco consiste appunto in una torsione impercettibile dei fatti, che consente di spacciarli come veritieri anche se sono rimodellati in vitro; basti pensare ai due momenti emblematici della danza del pupazzo in forma di scheletro e del pavone che dispiega la sua ruota (moniti simbolici di una efficacia eminentemente letteraria) mentre finalmente tra gente d’ogni età che rotola come un sacco di noci irrompe la vecchia canzone ritmata di Umberto Tozzi, a beatificare la tristezza della non a caso omonima protagonista (Gloria – manchi tu nell’aria – manchi ad una mano -che lavora piano- manchi a questa bocca- che cibo più non tocca – e sempre questa storia – che lei la chiamo Gloria).
Che altro dire? Arriva senza eccezioni il momento in cui le mode e i generi artistici ritornano, contando sulla non memoria di un pubblico nuovo. Gloria è un’operazione delicata, attenta, astutamente allestita su esempi vincenti, che si fa perdonare l’assenza di emozioni del dejà vu solo grazie al suo crescendo dalla metà in poi, mentre una falange di professionisti volenterosi si adopera al meglio in termini di sceneggiatura, di scenografia, di fotografia, di trucco e di montaggio. Facile presagire il suo successo presso un pubblico non propriamente verde che da giovane non andava al cinema e che oggi rappresenta una fetta crescente di introiti; meno condivisibili gli entusiasmi degli addetti ai lavori, sempre più esangui e forse stufi di esagitate pellicole giovanilistiche come di insipidi, inutili remake.
GLORIA di Sebastian Lelio, Cile Spgna 2013, durata 94 minuti