FORSE SI’ ANCHE NO – 3
Tre romanzi inapparentabili , che hanno il delitto come unico comun denominatore . Perchè è possibile che d’estate ci si alleggerisca sia nell’abbigliamento che nelle letture , devolvendo quest’ultime ai frammenti di inconsueti giorni vacanzieri , con minori possibilità di concentrazione o maggiori esigenze di mero diporto .
ANIME DI VETRO . FALENE PER IL COMMISSARIO RICCIARDI di Maurizio De Giovanni , Einaudi 2015 , 394 pagine , 16,15 euro
Due ricordi personali : il primo riguarda una catasta di libri , intitolati alle stagioni , svenduti a pochi euro , di un autore allora quasi ignoto . Da cui , per curiosità , il primo accattivante incontro con Maurizio De Giovanni e il suo poliziotto che “vede i morti”. Il secondo , un enorme album di cartoline Alinari , eredità francese di un viaggio di nozze lungo otto mesi , come primo e ultimo grand tour attraverso l’Italia straniera di fine 800 . Guardato e riguardato in quelle estati infantili la cui principale bellezza consisteva nel non sapere cosa fare . In entrambi , le atmosfere sospese di paesaggi e persone scomparse che , attraverso fessure color seppia , insistono per raggiungerci nei dormiveglia . E anche se la Napoli di Ricciardi , poi divenuto fortunato personaggio seriale , si dilata nelle ombre di un fascismo che il sole diluisce senza sconfiggere , l’atmosfera da dagherrotipo rimane inalterata , e ne costituisce il principale fascino . Fascino intriso di crudezza e di romanticismo , di contrasti popolari come di finte levigatezze elitarie , mentre la plebe resta tale , e il censo contamina onore e denaro . Tutti gli stereotipi delle fisicità e delle passioni sono contemplati secondo i canoni romanzeschi di un’epoca lontana , eppure la scrittura e i tagli strutturali di De Giovanni li rendono nuovamente vividi e originali , come la rilettura di un testo dimenticato di Invernizio , Dekobra , Pitigrilli , da Verona , senza trascurare le venature di un De Roberto , di un Natoli o di una Serao . L’intrigo talora avvince e talaltra no , ma è comunque sempre il pretesto di una nostalgia mitologica , legata all’ossimoro di un’attualizzazione antica . In questo caso una non illusione d’amore passa attraverso il sacrificio di una colpa assunta per interposta persona , mentre i soliti personaggi ricorrenti , dal femminiello Bambinella al brigadiere Maione , tornano ad esibirsi in un copione collaudato , sullo sfondo lancinante e psicologicamente un po’ compiaciuto di Palomma ‘ e notte di Salvatore Di Giacomo . Fa caldo anche lì e la città si colora di realtà e di allucinazioni con gli inevitabili riempimenti forzosi dei percorsi a puntate , tra attori fissi od estemporanei , comunque sorretti da un’attenzione e da un talento specifico che trova nella comicità come nell’inquietudine della perdita il suo più prossimo piacere . Un po’ come se in pittura le angosce di Salvator Rosa incrociassero non l’aulicità di Francesco Guardi , ma la quotidianità delle sue figurine in costume . Alcune allegramente prosaiche , altre di un rigore morale tramontato , che parla al presente senza trovare più ascolto .
L’ULTIMO LAPPONE di Olivier Truc , Marsilio 2013 , 446 pagine , 15,30 euro
Chi invece volesse rinfrescarsi in atmosfere ghiacciate , alla ambigua luce delle aurore boreali , può immergersi nella Lapponia di Olivier Truc , giornalista francese cinquantenne , residente dal 1994 a Stoccolma , corrispondente di Le Monde per i paesi nordici , nonchè documentarista televisivo . La sua evidente preparazione professionale trova un interessante sbocco divulgativo in questo primo romanzo poliziesco , seguito dal secondo Lo stretto del lupo , appena tradotto in italiano per la stessa casa editrice . Si imparano cose che probabilmente non si sanno , dalla sfumatura del rosso Falun alla transumanza delle renne , con tanto di apposita polizia espressamente dedicata , e se ne ripassano altre storicamente ricorrenti , quali gli atteggiamenti di svedesi , norvegesi , finlandesi e russi nei confronti dell’indigena popolazione Sami , trattata non diversamente dagli indiani d’America , con tanto d’invasioni , sterminii , appropriazioni indebite , devastazioni di una cultura orale animistica e magica , affidata in gran parte alle illustrazioni di tamburi sacri . Se la trama a più diramazioni ricalca gli stilemi del genere e , alla fine , non si sa bene quanto i conti tornino tutti o siano stati un po’ mistificati strada facendo , il viaggio può valere comunque la lettura . Non tanto per la qualità della prosa o per la suggestione di un racconto dilatato simmetricamente alla natura , quanto per l’esplorazione comoda di un’impervia terra sterminata , in cui è molto più facile morire che vivere . Bere e mangiare prevalentemente brodo o spezzatino di renna può far parte dell’incubo , ma chi leggerebbe d’estate un trattato su quella che impropriamente chiamiamo Lapponia ? Ecco allora giungere in parziale soccorso il romanzo di genere , spesso abusato in termini di facile intrattenimento ad effetto , ma anche sporadico innesco di curiosità per le troppe materie ignote , che tali resterebbero . E non a caso converte specialisti legali , economici , storici , scientifici eccetera in prosatori seriali di successo , che sanno condire una non cogente vocazione letteraria con l’autorevolezza e la credibilità di mestieri praticati . Truc sembra preparato , consapevole , disinvolto nel fondere informazione e intrigo , anche se non regge il confronto con i due principali talenti scandinavi in materia , che rimangono la coppia Siovall – Wahloo ( con dieresi norrene ) e il rimpiantissimo Stieg Larsson . Ma non sfigura rispetto ad altri – e qui l’elenco sarebbe lungo all’interno della stessa scuderia Marsilio – sia per l’originalità dell’ambientazione , sia per gli spettacoli naturali che blindano il racconto all’interno di panorami e fenomeni atmosferici visti con gli occhi ciechi o abbacinati di chi rimane comunque straniero in una terra che pur conosce . E che sono , in qualche modo , gli stessi non assuefatti del lettore accaldato , magari pago del romanzo in sè oppure pronto a considerarlo un pretesto per ulteriori ripartenze .
IL GRANDE MALE di Georges Simenon , Adelphi 2015 , 147 pagine , 15,30 euro
E’ possibile pensare che il titolo del libro alluda sia alla devastazione degli animi che ai fenomeni di tipo clonico-tonico che caratterizzano quelle crisi definite popolarmente come “il grande male”. Perchè il morto ammazzato per defenestrazione è appunto un epilettico e non c’è mistero nè sulla sua morte – quasi un prologo del romanzo – nè sulla sua assassina . Più sottili e composite sono viceversa le motivazioni del delitto , da ritrovarsi nelle atmosfere e nei personaggi di quella immota provincia francese che Simenon restituisce puntualmente lungo talune fissità ossessive , occupando per intero un solo carattere , per generare poi fatali destini plurimi . Madame Pontreu è una vedova inizialmente ancora giovanile , ha tre figlie ma un solo , ricco e imbelle genero . Più che madre e moglie è una custode di svariate dignità : l’onore di un passato decaduto , i compiti e i minuti da amministrare nel presente , i passi e i colpi da pianificare e parare per l’avvenire . Perchè tutto venga conservato almeno com’è lungo un tempo unico , senza distinzioni fra l’estemporaneità improvvisa di un delitto compiuto dall’orto al granaio , e la ferma consapevolezza utile a inamidare le tende , preparare la minestra , mettere all’asta la proprietà del suocero . Ed è questa personalità gelidamente sofferente di un complesso demiurgico a costituire il vero fulcro intrigante del racconto , al cui contorno si agitano poche , corali figure , dal soccorrevole medico alla sordida domestica , fino al brusio indistinto delle comparse e delle case di un villaggio rurale , da cui la prossimità del mare sembra essere fuggita altrove . Il lettore di Simenon riconosce i temi , le persone , le atmosfere , lo stile , gli interrogativi esistenziali spesso senza risposta , al cui interno lo scrittore scava e ricostruisce , restituendo compiuto , ma ancora ulteriormente interpretabile , l’enigma umano . Tuttavia Il grande male non appartiene ai grandissimi e grandi romanzi , bensì sembra una sorta di riepilogo tra le righe o una presa di fiato verso altri respiri . L’ intagliatore è abile , ma il materiale rimane sbozzato , seppur in modo genialmente grezzo , e la sua concisa brevità può essere riempita ai margini da altri rimandi ad altre opere . Ne risulta una commistione arditamente incompiuta fra tematiche e persone , in cui la tragedia non è rappresentata dagli attori , ma dai temi veicolati dell’Orgoglio , del Controllo , della Sottomissione , della Ribellione , del Ricatto e della Fede , non importa se in dio o in se stessi . Purchè tutto rimanga in famiglia sotto lo stesso tetto , al sanguinoso prezzo , eminentemente matriarcale , di una minuziosa , assidua infelicità .
ROSINA FERRARA DANCING THE TARANTELLA ( CAPRI ) – 1909 – di John Singer Sargent