FAME DI EFFETTO
D’accordo , non succede tutti i giorni ,ma è comunque possibile che una storia d’amore inizi nel gabinetto puzzolente di un ristorante cinese . Meno d’accordo , ma succede spesso che , nonostante l’abbondanza di mezzi profilattici disponibili , la ragazza rimanga incinta dopo qualche esercizio intimo . Infine sì , il precipitoso matrimonio non è più riparatore come un tempo , ma la nascita imminente di un figlio può catalizzare sentimenti ancora in apnea fino a sfociare nella volenterosa formazione di una famiglia . E qui , già dal veloce incipit , il regista ci dice che non sono questi gli elementi che gli premono , bensì la messa a punto di una cifra stilistica che odori pervasivamente di realismo : i pori della pelle vengono frugati fino all’impudicizia , le sembianze dei due protagonisti ( Adam Driver e Alba Rohrwacher ) alternativamente assumono e dismettono le deformazioni lenticolari tipiche dei pesci d’acquario , una certa scatologia infantile avverte che la toilette introduttiva è solo una delle tante che saremo chiamati a visitare nostro malgrado . Intanto , il primo pezzo ( What a feeling – Flashdance ) di una colonna sonora tutta mediocre annuncia che la festa sta finendo , e un sogno inquietante increspa le acque e impenna la forma , perchè forse non è tutto così qualsiasi come appare .
Il bambino nasce gravato dal pronostico di una veggente pseudo felliniana ; la madre diventa sempre più possessiva e catatonica , lo nutre con semi e altra robaccia vegetale che cerca di coltivare personalmente ; il confronto tra due persone che si conoscono poco e parlano ancora meno , fa crollare il baluardo costruito per difendere la loro piccola trinità dal resto del mondo : le ossessioni esoterico – igieniche di lei compromettono la normale crescita del figlio e chiudono il marito – padre in una morsa emotiva che lo costringe a scegliere il male minore , o l’affetto più forte , oppure ancora l’elemento più indifeso e quindi con più diritti . Fino a che qualcuno al posto suo risolverà un dilemma venato di approssimata follia , e una spiaggia da cartolina annuncerà che la vita continua , pur se con il suo immancabile Sapore di sale .
La storia vorrebbe porre più interrogativi : di chi è un figlio ? E’ sempre vero che l’istinto materno sa e può tutto ? Che cosa succede quando un fanatismo malato ed inglobante prende il posto dell’affetto ? L’intesa , anche passionale , si ferma proprio su quella soglia procreativa che per alcuni è l’obiettivo stesso della convivenza d’amore , epperò senza più amore ? Un copione avveduto si sarebbe snodato diversamente , ma in questo caso tira via : risparmia sui dialoghi , banalizza fino all’inverosimile i risvolti legali di un qualsivoglia codice di famiglia , pasticcia sulle teorie e i luoghi comuni legati all’informazione / disinformazione fai da te di matrice alimentare , tratta frettolosamente l’impianto psicologico e il retroterra dei protagonisti . Allora la regia si propone forse di supplire , pescando nei tanti spunti biografici dei potenziali spettatori , ed estroflette al massimo ogni forma di interiorità , in modo che risulti più schematica , più riconoscibile , più appagante .
Peccato che lo faccia con una coerenza dubbia , ossia risolvendo la modestia di un abitino dei grandi magazzini con l’aggiunta di incongrui orpelli di finto lusso . Il risultato non è solo ibrido , ma anche di cattivo gusto . Si vedano le esasperazioni inutili della macchina da presa che , a partire dalla metà del film , impazza negli interni dell’alloggio , mostruosizzando la distorsione delle prospettive in modo da sostituire la debolezza dell’allestimento con gli effetti visivi , nella speranza di conferire un tocco autoriale che viceversa latita . Oppure la commistione incerta dei generi , per cui il film oscilla , senza saper prendere partito , tra la catastrofe teatrale da stanza chiusa , il thriller psicopatologico alla Polansky , il sentimentale tinto di sporadico noir . Con l’aggiuntiva furbata dell’internazionalità : ambientato in America , Hungry Hearts si autoappunta sul petto un emblema di universalità già a partire dal titolo , mentre la credibilità della stridente coppia sarebbe stata forse maggiore se ambientata a Chieti .
Succede quando non ci si nutre di citazioni , bensì di reminiscenze filmiche anche nobili , però assemblate ambiziosamente ad effetto e ad orecchio : si conta su Domenico Modugno (Tu si ‘na cosa grande) per contrabbandare una dimensione non raggiunta oppure su Psycho per il monologo finale , e si arruffano domande attuali prese dai forum della rete . Ma tant’è , siccome si parla di coppia e , soprattutto , d’infanzia , il dolore – anche quello vero – si massifica al botteghino , che perdonerà ogni incongruenza e caduta di stile , in nome della santa pipì dei figli o dei figli di (sia detto con precisa delusione ma senza meschinità nei confronti di Saverio Costanzo ) .
HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo , Italia 2014 , durata 109 minuti