EPEPE
Il professor Budai , esimio linguista ungherese in partenza per un congresso a Helsinki , deve aver sbagliato coda all’aeroporto , imbarcandosi verso un altro paese . Lo accoglie una città multietnica che sembra l’immensa periferia di se stessa , a cavallo fra le allucinazioni archittettonicamente composite del film Metropolis e l’anonimato seriale di certi sobborghi russi degli anni sessanta . L’aria è granulosa , il sole un’ipotesi , mentre la massa insensatamente e perennemente in movimento della popolazione e delle auto sembra non avere nè varco nè tregua nè direzione . Inizia così un’odissea scritta cinquant’anni fa , eppure curiosamente atemporale , che in qualche modo rimanda all’ermeticità del mondo disperante di Kafka , anche se Budai ha un unico punto di apparentamento con il protagonista de Il processo : l’iniziale – e mal riposta – fiducia nel proprio mestiere . Per il resto , non ci sono colpe nè latenti nè occulte e nemmeno labirintiche persecuzioni , perchè qui manca l’elemento fondamentale per qualsiasi tipo di contatto , ossia la condivisione della parola significante . Nonostante la sua buona conoscenza di almeno una ventina di lingue , prosaicamente Budai non capisce , non viene capito e inutilmente si arrovella nella decifrazione dei suoni e dei segni , di cui gli è nota solo la numerazione araba .
Segmentato lungo gli stati d’animo del protagonista e il progressivo decadimento delle sue condizioni vitali in relazione ai giorni e ai mesi che trascorrono impenetrabili , il libro è la proiezione di un incubo interiore ed esteriore in cui le torsioni di una realtà palese e nel contempo arcana cominciano come uno scherzo , per proseguire nell’assurdo fino a toccare il tragico . Tenendo presente l’epoca , è probabile che l’autore volesse adombrare l’oppressività occhiuta del regime comunista nelle interminabili code di masse indistinte e nell’indecifrabilità di un vivere apparentemente scontato e ripetitivo . Eppure , se fosse solo così , il racconto parlerebbe con molta minore intensità . La ripubblicazione , invece , deve aver tenuto conto delle misteriose vie che possono prendere le distopie lineari , prive cioè di quegli effetti speciali che ci segnalano di essere forzatamente altrove nel tempo , anche se per parlare del qui ed ora . La misteriosa capitale è infatti singolarmente contemporanea allo sviluppo e al degrado dei nostri grandi agglomerati urbani , l’estraneità e la fretta sono il muro altrettanto odierno contro cui il protagonista si scontra incessantemente , fino a pensare che anche gli altri non si capiscano fra di loro . Uomo eminentemente cittadino , è sia respinto che affascinato dai luoghi che lo costringono in un perimetro indefinito : teme possa far parte addirittura di un altro mondo , e nel contempo arriva quasi ad amare questo confino senza fiumi e senza sbocchi marini , dove i grattacieli crescono di due piani al giorno . L’incomunicabilità della lingua diventa una palese metafora delle nostre affollate solitudini e la non collocabilità geografica ribalta in modo ansiogeno la nostra voracità di viaggiatori di un mondo ormai a portata di ore . Sicchè tutti i tentativi e le sconfitte dell’indomito protagonista sono partecipati dal lettore con la stessa intensità di sforzi con cui chi sogna di essere sveglio combatte inutilmente le paralisi e le afasie. L’immedesimazione dapprima viene respinta come ingenua , ma poi il senso di smarrimento si fa via via più soffocante e l’interrogazione di cosa si farebbe al posto del disgraziato – senza documenti e con pochissimo denaro – diventa un sentimento stringente che si accavalla alla lettura . Si vorrebbe salvificamente suggerire , e poi ci si accorge che nè si sa nè si può . Nel contempo si curiosa per le vie e per le piazze e ci si distrae in tutte le direzioni proprio mentre si cerca una breccia . L’apparizione di uno sconosciuto con un datato giornale ungherese sotto l’ascella – e il breve scambio di parole che si allontanano – diventa un momento struggente , così come il perduto appuntamento con la ragazza dell’ascensore il cui ipotetico nome dà il titolo al romanzo .
Difficilmente capita di divorare un libro a tratti ripetitivo e anche concitatamente lento , che sposta appena la storia tornando su se stesso senza geometrie circolari , e in cui tuttavia la compenetrazione inventiva tra personaggio e ambientazione innesta sulle ansie e le debolezze del lettore un singolare cortocircuito di emozioni . Eppure il fraseggio è accurato ma quotidiano : anche il linguaggio sembra voler respingere qualsiasi enfasi letteraria affidando il tutto alla forza plastica di un’invenzione potente e consequenziale , resa però con la pacatezza quasi inventariale di una cronaca o di un’inchiesta . Non c’è nulla da sottolineare , ma molto da ricevere empaticamente su cui magari riflettere durante o all’uscita dalla malia . Perchè il finale di lotta si allaccia e prosegue nelle nostre vite , viceversa sempre più ingombrate da un eccesso di comunicazione insignificante o distorta , che ha come ultimo problema quello linguistico – ridotto il nostro eloquio a poche centinaia di parole , magari mistificate da traduttori tecnologici . Traduttori fedifraghi che tuttavia ci rassicurano come cittadini del mondo , disinvolti sugli aerei , spesso incuranti degli agguati della sorte per mancanza di immaginazione o per la trascurata associazione fra la diversità non compresa e il pericolo . Pensando erroneamente che gli assedi siano lontani affari omerici , e che comunque un accesso e un ritorno siano sempre possibili , semplicemente perchè le nostre case ci aspettano .
Il libro
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EPEPE , di Ferenc Karinthy , Adelphi 2015 , 217 pagine , 18 euro
L’autore
Ferenc Karinhty ( Budapest , 1921-1992 ) giornalista , romanziere ( e campione nonchè arbitro internazionale di pallanuoto ) è stato un figlio d’arte , essendo il padre Frigyes altrettanto noto per le medesime attività . Laureatosi in letteratura e linguistica , ha scritto anche per il teatro , tra cui La notte di Don Giovanni -1943- e vinto parecchi premi . Numerose anche le sue traduzioni in ungherese , tra cui le opere di Molière e Machiavelli . Scritto nel 1970 , Epepe è il suo primo romanzo che si affaccia sulla scena internazionale , grazie alla traduzione inglese ( Metropole – 2008 ) . Ancora da pubblicare in italiano Autunno a Budapest sulla rivoluzione del 1956 e Giornale – 1994 . Dalla prefazione di Emmanuel Carrère apprendiamo che l’autore , dapprima comunista , aveva disertato per imboscarsi in un ospedale della sua città , subendo quattro operazioni inutili per giustificare l’ immotivata assenza di un anno . Forse uno spunto autobiografico per Epepe , unito alle specifiche competenze linguistiche , di cui il romanzo porta ovviamente parecchie tracce .E , a proposito di lingue , la traduzione francese segna tre accenti acuti -Epépé – venendo a suonare un po’ come epopea.
La citazione
“Il problema era lui , il suo carattere alieno da ogni forma di invadenza e di prevaricazione . Se non fosse stato capace di vincere la sua irresoluta modestia , il suo timore di essere di peso , non si sarebbe mai tirato fuori da quella situazione , non sarebbe nemmeno riuscito a dare notizie di sè , e nessuno sarebbe venuto a cercarlo . Doveva battersi da solo , non c’era altra via d’uscita….picchiò un pugno sul comodino…odiava quella città , la odiava profondamente perchè gli riservava solo sconfitte e ferite , lo costringeva a rinnegare e a cambiare la sua natura , e perchè lo teneva prigioniero , non lo lasciava andare , e ogni volta che provava a fuggire lo ghermiva e lo tirava indietro”.
Le connessioni arbitrarie ( e virtuose )
Per il monumento ad una città : Meravigliosa Chicago di Theodore Dreiser , I “passages ” di Parigi di Walter Beniamin , Pietroburgo di Andrej Belyj , Praga magica di Angelo Maria Ripellino