Film

DJANGO UNCHAINED

Una distesa di pietre come onde desolate ad anticipare tumulto, aridità, dolore; sovraimpressi enfaticamente, i titoli di testa di un vecchio colore rosso che non si usa più. Intanto la smagliante colonna sonora irrompe con la musica di Luis Bacalov e Rocky Roberts, il corpo si arrotonda nella poltrona per assaporare al meglio lo spettacolo, e via con l’epopea.

Ma chi è Django (con la d muta, secondo la chiosa dello stesso intestatario dell’appellativo)? In realtà sono molti, come i film girati sul finire degli anni sessanta, il cui interesse preminente oggi consiste nel rileggere i nomi americanizzati di nostranissimi registi di spaghetti western (William Redford, Dick Spitfire, Ted Archer). Ma quello DOC, il capostipite, appartiene a Sergio Corbucci e al volto di Franco Nero (1966): è lui l’eroe che si trascina una bara con dentro una mitragliatrice e sulla tomba della moglie spara sette colpi, quando la sua pistola ne contiene solo sei. Anche in assenza di Edwige Fenech, era scontato che Quentin Tarantino se ne innamorasse, fino a reincarnarlo nello schiavo interpretato da Jamie Foxx, due anni prima che la guerra di secessione abbia inizio.

Il suo profilo scuro si staglia sullo schermo, concepito come una lunga striscia in cui non si capisce se è lui a stare fermo e il paesaggio a muoversi, o viceversa: un espediente tecnico “da treno” che sutura a più riprese i diversi episodi della pellicola, giocata su sequenze orizzontali come le bande dei fumetti, a controbilanciare gli improvvisi slarghi e le multiple esplosioni circolari.

Insieme a Django, schiavo liberato, il suo liberatore, un magniloquente ex dentista tedesco, divenuto cacciatore di taglie, interpretato dal solito eccellentissimo Christoph Waltz (Palma d’oro a Cannes per Bastardi senza gloria nel 2009) è l’invenzione migliore del film, che ruota intorno ad un sodalizio, una vendetta, un riscatto d’amore. Intorno, lo schiavismo non tanto come costume ma come religione, e l’assurdità della supremazia del negro in carriera contro la negritudine da manovalanza, carne di passaggio, con la sola ragione di esistere della sottomissione servile. A rappresentarla, un diabolico Leonardo Di Caprio, grande proprietario terriero con velleità francesizzanti e una vera e propria passione per l’assassinio sadico, tra sigari, liquori, lumi di candela, tavole imbandite, truci lotte di mandingo all’ultimo sangue, in luogo di torbidi intrattenimenti televisivi di là da venire.

La trama è interessante solo in quanto funzione dell’avventura per l’avventura, mentre fra gli interstizi si affaccia una concezione della razza giocata tra il pragmatismo degli americani e la concezione eugenetica (ammantata anche di un malinteso romanticismo) di un’Europa che cadrà in drammi altrettanto cruenti oltre ottanta anni dopo, con l’avvento del nazismo: i primi con una giustificazione della supremazia bianca naturale – e quindi divina – adombrata nelle illustrazioni frenologiche di Di Caprio; i secondi in modo più confuso e meno direttamente economico, tra cinismi e sussulti libertari della coscienza, secondo i vagheggiamenti di Christoph Waltz.

Ma non si pensi ad un trattato ideologico, e nemmeno ad un racconto che mira solo a essere raccontato: Quentin Tarantino, sia regista che sceneggiatore, ha una mira più raffinata e l’affida all’ombreggiamento dei caratteri, ai continui siparietti dei dialoghi, alle mirabili scenografie dei paesaggi e degli interni, così come ai contrasti tra il sangue che sgorga a fiotti e la vena umoristica che trascorre continuamente da una pausa tesa ad una strage fulminea. Si veda , in questo senso, l’esemplare momento del maldestro gruppo antesignano del Ku Klux Klan, reso sgomento da cappucci artigianali con buchi sbilenchi che impediscono ogni possibile visuale…

Intendiamoci: siamo di fronte ad un regista più maturo, più classico, forse meno “libero” in ragione o in omaggio a un preciso modello, sempre molto dotato ma qui quasi frenato nello spargere a piene mani le sue particolarissime invenzioni descrittive come in Pulp Fiction (1994), Kill Bill (2003-2004) e Bastardi senza gloria (2009). Non ci sono i momenti indimenticabili di un accenno di danza, delle anime che sfiatano come piccoli fantasmi dalle bocche dei morti ammazzati, dello schermo diviso in due, in cui sotto si svolge quello che sopra non si deve sapere.

C’è l’evidente riconoscibilità di una concezione, una visione e uno stile sempre altamente identitari, straordinaria amalgama di idee e spunti che trascolorano in estri, immagini, suoni (trascinante tutta la colonna musicale, dal già citato Bacalov, a Morricone e Ortolani, fino agli originali di Rick Ross, Elisa, John Legend) ma manca qualche cosa: probabilmente non tanto Uma Thurman, quanto una vera eroina femminile, nonché un robusto taglio sul finale, che arranca oltre la sua naturale conclusione drammaturgica. Rimangono però integre le sollecitazioni di un dinamismo dirompente ritagliato nella sottigliezza maniacale dei contorni, nonché l’elemento più prezioso: i film di Tarantino si godono sia durante la proiezione per immancabile, quasi obbligato trasporto, sia dopo la proiezione per la prepotenza della memoria che si intestardisce a ripercorrerne i dettagli.

DJANGO UNCHAINED , di Quentin Tarantino ,Usa 2012, durata 165 minuti

Previous post

FRANKENWEENIE

Next post

THE MASTER

Marinella Doriguzzi Bozzo

Marinella Doriguzzi Bozzo