DIAZ NON PULIRE QUESTO SANGUE
Si era a metà dell’estate, undici anni fa. Gli amici genovesi telefonavano in continuazione per aggiornarci: prima preoccupati, poi sdegnati, infine orripilati. Carlo Giuliani era già morto davanti alla chiesa del Rimedio in quella Piazza Alimonda in seguito cantata da Guccini, e i tafferugli continuavano in una delle città logisticamente meno adatte ad ospitare un G8 preannunciato come altamente problematico. Per fortuna Silvio Berlusconi (nel personale sopralluogo di due settimane prima) ne aveva compreso la complessità, disponendo il colore degli addobbi e intimando di far sparire ogni ammiccar di mutande fra i bucati stesi al sole. Quello che stava per succedere alla scuola Diaz sarebbe emerso però solo in seguito, molto più lentamente e attraverso due processi di primo e di secondo grado, con l’attuale vaglio della Cassazione.
In senso specifico, almeno rispetto ai fatti rappresentati dal film, la vicenda inizia con l’invasione senza mandato (prevista dalla legge esclusivamente nel caso di detenzione di armi in ambiente chiuso) di poliziotti e carabinieri presso la scuola Diaz. E prosegue poi nell’adiacente scuola Pascoli: edifici entrambi offerti dal comune al Genoa Social Forum sia come accoglimento del Media Center che come possibili dormitori per gli autorizzati. Intorno alle ore 21 del 21 luglio del 2001 un più che controverso attacco dei manifestanti nei confronti di una pattuglia delle forze dell’ordine scatena l’allucinante rappresaglia.
Alcune ore più tardi , una città già provata, un’Italia sbigottita e un’attonita comunità mondiale assistono ad un intervento massiccio di ambulanze per portar via una sessantina di feriti, ignari di essere anche agli arresti per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio; mentre un altro centinaio di dimostranti viene fermato, con la successiva vergogna della caserma di Bolzaneto.
Le prime , contraddittorie e pasticciate giustificazioni delle autorità sono nel tempo smentite da varie testimonianze, fra cui il video dell’emittente locale Primocanale, che determina la tardiva confessione di un poliziotto: le due bottiglie molotov trovate all’interno della scuola sono state prodotte dalla stessa polizia. Con evidenti compromissioni di tutta la preposta catena di comando, sullo sfondo di una responsabilità politica e di un’arrogante imperizia rimaste a tutt’oggi nell’ombra.
Trattare cinematograficamente la materia storica in un paese come il nostro, dove spesso le verità e le colpe sono di fatto dei misteri o delle omissioni, è atto benemerito quanto complesso. In questo caso, siamo lontani dal periodo di fioritura della filmografia sociale e politica degli anni sessanta-settanta, con registi come Rosi, Petri, Damiani, Pontecorvo, Lizzani, tendenti sia alla metafora esemplicativa, sia alla ricostruzione decodificata dei fatti. La scelta del regista Daniele Vicari è invece piuttosto di tipo “impressionista”, nel senso eminentemente pittorico del termine: fortissimi contrasti di luci e di ombre, violenza che si fa carne massacrata davanti ai nostri occhi e dentro le nostre stesse viscere, scansione non meglio precisata dei frangenti, volta a colpire al cuore – mentre la memoria s’interroga senza risposte circostanziate: perché non tutti gli spettatori ricordano la complessa catena degli eventi , bensì il” sentimento” dei medesimi.
Sentimento reso simbolicamente con il lancio al rallentatore di una bottiglia che si infrange al suolo in mille schegge, e che attraversa ripetutamente la pellicola, dando ogni volta luogo al “riavvolgimento “degli episodi. I quali ritornano coralmente a confluire su loro stessi, senza che il meccanismo del potere decisionale venga mai chiarito, se non fra le righe, e in modo piuttosto sommario. Mentre le implicazioni politiche sono lasciate alle deduzioni dello spettatore.
Intanto, sullo schermo, la scelta di un collettivismo diffuso impedisce di seguire con precisione lo svolgimento dell’azione e costringe a tirare sommariamente le fila di una notte di terrore, di ingiustizia e di brutalità, che ancor oggi costituisce un affronto alla società tutta. Da un lato tentando di resuscitare dall’interno delle coscienze e dei corpi degli attori e degli spettatori il senso dello smarrimento, del dolore e della sopraffazione mediante l’efficacissima rappresentazione della confusione e della sorpresa, tipiche di quei sogni labirintici che si trasformano in minaccia subliminale.
Dall’altro con qualche forzatura necessariamente ingenua in quanto didascalica, a fornire letterariamente una conformazione di supporto all’incubo. Un lavoro arduo e una scelta coraggiosa sia da parte del regista che del produttore, soprattutto in tempi di disaffezione politica e di relativa barbarie civile, dove, rispetto al diritto degli altri, si tende a privilegiare il proprio, magari anche attraverso intrattenimenti facili che generano oblio anziché quell’impegno che i tempi pericolanti viceversa richiederebbero.
Visione da raccomandarsi pertanto agli spettatori di tutte le età come rafforzamento del senso dei diritti-doveri del consorzio umano senza distinzioni e come stimolo alla meditazione e alla consapevolezza. Ma con il suggerimento di ripassare previamente la materia perché l’argomento è alto, ma il modo di affrontarlo è a tratti relativamente incerto, sia sotto il profilo della sceneggiatura e dell’ambientazione, come dal punto di vista della regia complessiva. Infatti Daniele Vicari, individuata una modalità tra il narrativo e il documentaristico per trattare la massa delle informazioni, sembra procedere con passione ma in modo talora un po’ ripetitivo e manieristico, confidando nella forza dell’argomento stesso, per risultarne a tratti quasi sopraffatto: un’audace testimonianza da condividere all’interno di un’opera perfettibile.
DIAZ NON PULIRE QUESTO SANGUE di Daniele Vicari, Italia 2012, durata 120 minuti